Morire di inchiesta giudiziaria, morire di intercettazioni, morire di reputazione distrutta. Lo abbiamo visto accadere troppe volte, soprattutto nel mondo politico o quello delle amministrazioni locali, in terra di mafia. Ma se mettiamo insieme anche la possibilità di “morire di Csm”, ecco che si parla dell’assassinio di magistrati. Morte professionale e toga sporca, locuzione cara a certi giornali.
Il ministro Carlo Nordio ne ha citati tre, di questi magistrati, nel suo discorso di programma alla Camera dei deputati. Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del Presidente Giorgio Napolitano, ucciso nel 2019 a 64 anni da un vero infarto giudiziario per un’intercettazione con l’ex ministro Nicola Mancino, nelle indagini nel fallimentare “processo trattativa”. Avrebbe dovuto portare pazienza, potrebbe commentare il cinico, visto che due anni dopo, con l’assoluzione di tutti gli imputati in appello, il processo finì dove avrebbe sempre dovuto stare, nel cestino della carta straccia. E chissà se il senatore Scarpinato, che finalmente può lottare a viso aperto con quel ruolo politico che alle toghe non dovrebbe essere consentito, ogni tanto ripensa al recente passato in cui fu pg nel “processo trattativa” e a quel collega morto di crepacuore all’ombra di quelle inchieste finite con la bocciatura dei giudici di Palermo.
Il secondo nome citato dal Guardasigilli è quello di Michele Coiro, che fu tra i fondatori di Magistratura Democratica, e poi Procuratore capo a Roma verso la fine degli anni novanta, e lui stesso membro di quel Csm che fu covo di serpi nei suoi confronti. E lui c’è morto, di ictus, a 71 anni. E allora, ma solo allora, gli furono tributati i funerali di Stato. I membri del Csm, tranne un paio di amici personali, rimasero a casa, quel giorno. Nel picchetto d’onore alla bara rimase per molte ore un pm che aveva lavorato con lui e che indosserà la toga per l’ultima volta, Francesco “Ciccio” Misiani, travolto insieme al suo capo dalla furia del famoso rito ambrosiano dei tempi di Mani Pulite. Morirà nel 2009, di malattia, un po’ come Enzo Tortora quando disse “mi è scoppiata una bomba dentro”.
La bomba della malagiustizia. Che vedrà questo altro esponente importante di Md tradito dai “compagni” che a Milano avevano saltato il fosso e abbandonato il tradizionale garantismo della corrente, e poi esposto alla gogna peggiore. Con le telecamere in agguato dietro la porta dell’ufficio mentre ancora non sapeva di essere indagato, lui toga rossa, dalle toghe rosse di Milano. In un processo per il quale sarà assolto anni dopo “perché il fatto non sussiste” da un reato di favoreggiamento ormai prescritto, mentre la Procura colse l’occasione per non ricorrere in appello.
Ciccio e Michele erano due amici. Due magistrati democratici e garantisti. Bisognerebbe ricordare che cosa era la corrente di Md della magistratura, in quegli anni precedenti alle inchieste di Tangentopoli e alla nascita di quel mostro che verrà chiamato “rito ambrosiano” che ruppe ogni schema, trasformò gli amici in calunniatori e la logica del sospetto mise sotto la lente di ingrandimento chiunque fosse fuori dal fortino del quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano, uffici della Procura della repubblica. Ciccio Misiani è finito dentro un imbroglio, interrogato due volte dai pm milanesi Gherardo Colombo e Ilda Boccassini sulla base di un’intercettazione che tale non era. Il magistrato romano era stato visto da un poliziotto in un locale, il bar Mandara di Roma, insieme al capo dei gip Renato Squillante, già inquisito per corruzione e che poco dopo sarà arrestato.
L’agente, che evidentemente controllava l’alta toga romana, aveva cercato di origliare e preso appunti su un tovagliolino di carta. Nella relazione aveva aggiunto qualche considerazione personale per far apparire Misiani nella veste di consigliere e complice. Emergerà in seguito che lui, di fronte ai timori del superiore di essere arrestato, visto che ormai giravano voci, si era limitato a dirgli di stare tranquillo e dire la verità ai colleghi, dal momento che Squillante si dichiarava innocente e sosteneva di essere in possesso di denaro vinto in borsa. Ma la graticola del Csm, oltre che, nel caso di Misiani, il processo penale, fu la fine per i due esponenti di Magistratura democratica. Coiro a un certo punto non resse più al sospetto e all’isolamento, dopo aver scoperto che in un altro bar romano frequentato da magistrati, i suoi colleghi milanesi avevano messo una microspia per spiarli tutti. La pratica per il suo trasferimento fu troncata a metà dalla sua decisione di accettare la proposta del ministro Flick di andare a dirigere il Dap. Sarebbe stato un ottimo capo delle carceri, se un ictus non lo avesse fermato pochi mesi dopo.
Ciccio Misiani aveva invece affrontato il procedimento di trasferimento per incompatibilità ambientale con astuzia politica, oltre che con l’angoscia di chi sente non solo di subire un’ingiustizia ma anche di essere tradito da coloro che considerava i suoi amici e compagni: Gherardo Colombo, Ilda Boccassini e soprattutto Francesco Greco, suo ex uditore, il più “rosso” di tutti, quello che nelle riunioni bisognava sempre trattenere perché il suo dogma era “lo Stato borghese si abbatte e non si cambia”. Misiani con il suo discorso sincero e appassionato era riuscito a spaccare il Csm e la sinistra. Il ruolo dell’accusatore era svolto dal professor Fiandaca e il vicepresidente era il professor Carlo Federico Grosso, altro insigne giurista, indicato dal Pds. La votazione finì 11 a 11, con il voto favorevole al trasferimento del vicepresidente che valeva doppio.
Così Francesco Misiani fu mandato a Napoli, finché non decise poi di lasciare la magistratura. Solo in seguito fu assolto nel processo milanese di primo grado. Poi la malattia, e il ricordo di quella toga che aveva indossato per tanti anni e che aveva dovuto abbandonare dopo la morte del suo amico Coiro. Che differenza fa? Infarto o ictus o quella bomba che ti scoppia dentro. Questi tre magistrati sono stati uccisi, e Carlo Nordio bene ha fatto a ricordarli. Bravo ministro, te ne siamo grati. Uno dei tre, Ciccio, era mio amico, e quella frase che gli dissi al funerale del suo capo “Ti raccomando non farci scherzi anche tu” e che lui ha citato nel libro “La toga rossa”, significava proprio non lasciarti uccidere. Purtroppo è accaduto.
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