“Per quanti voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti” sono tra i versi più spesso citati della storia della musica italiana. Presi a sorta di massima, è aforisma compendio di Storia di un impiegato: un circolo che si chiude sul finire del quarto concept album di Fabrizio De André. Giovanni Truppi, in gara al 72esimo Festival di Sanremo, ha scelto il brano Nella mia ora di libertà per la serata delle cover, la quarta di venerdì 4 febbraio. E ha scelto di cantarla con Vinicio Capossela, per la prima volta sul palco dell’Ariston.

Il più istrionico, enciclopedico, eclettico cantautore della sua generazione. E anche quello più prossimo a De André, il mostro sacro, considerato inavvicinabile. Di origini campane, Calitri in Alta Irpinia dove ha creato lo SponzFest, come Giovanni Truppi, che è nato a Napoli ed è in gara con la sua Tuo padre, mia madre, Lucia. “Ho scelto questa canzone – ha spiegato a Repubblica quest’ultimo – perché credo nelle sue parole e me ne sento rappresentato. Credo fortemente, come dice De André, che siamo tutti coinvolti, anche perché siamo collegati tra noi più di quanto riusciamo a realizzare: ce lo dicono la biologia e la fisica, ce lo ha detto Jung e ce lo dicono la storia e l’economia. Quando penso a questo mi sembra evidente che se una persona ha fame è perché il suo pezzo di pane l’ha preso (metaforicamente) qualcun altro e il fatto che cerchi di sopravvivere, anche rubando, mi sembra la cosa più normale del mondo”.

Nella mia ora di libertà chiude dunque il disco più politico di De André. Pieni anni di piombo, la contestazione, il sogno di un mondo nuovo, gli ideali che distorcono e sfociano nella violenza. Le ossessioni, le convulsioni, la ribellione di una generazione nell’uomo in rivolta, un giovane impiegato, ispirato da un canto del Maggio Francese alla rivoluzione. Il travet che non rinuncia al suo individualismo e che tramite incontri in piazza e viaggi onirici – sogna di far saltare con l’esplosivo i simboli del potere e della borghesia – attraversa la contestazione per approdare al terrorismo.

Il trentenne diventato bombarolo piazza il suo tritolo. Sbaglia e fa saltare in aria un chiosco di giornali e non il Parlamento. Ferito nell’orgoglio e umiliato, dal carcere vede la sua donna intervistata. Verranno a chiederti del nostro amore è il capolavoro del disco, unico brano portato in tour anche nei decenni successivi. L’uomo ormai è solo in carcere e riflettendo intorno alla sua ora d’aria cui decide di rinunciare evolve la sua protesta individuale in una lotta collettiva. Chiedendosi “qual è il crimine giusto per non passare da criminali”, i detenuti decidono di sequestrare i secondini proprio durante l’ora di libertà.

La canzone è una miniera di versi, spesso presi alla maniera di aforismi, citati di continuo. “Di respirare la stessa aria d’un secondino non mi va” nell’incipit, “se fossi stato al vostro posto ma al vostro posto non ci so stare”, “Certo bisogna farne di strada da una ginnastica d’obbedienza fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni”, “Ci hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane, ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame”.

La critica fu ingenerosa con il disco scritto con Giuseppe Bentivoglio. Giorgio Gaber parlò di “un linguaggio da liceale che si è fermato a Dante, che fa dei bei temini, ma non si riesce a capire se sia liberale o extraparlamentare”. A proposito del suo fervore anarchico il cantautore genovese disse: “Il mio identikit politico è quello di un libertario, tollerante. Se poi anarchico l’hanno fatto diventare un termine orrendo … In realtà vuol dire solo che uno pensa di essere abbastanza civile da riuscire a governarsi per conto proprio, attribuendo agli altri, con fiducia, le stesse capacità”. Il valore del disco è stato pienamente riconosciuto solo a partire dagli anni ’90.

Capossela ha paragonato De André alla Bibbia, che si può leggere in chiesa come in carcere e, al Corriere del Mezzogiorno, ha aggiunto, senza dimenticare le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere: “Una canzone di grande radicalità che sottolinea come non ci sia possibilità di conciliazione tra detenuto e detentore. La nostra società ha sempre più bisogno di punizione. Calano i reati ma crescono esponenzialmente le detenzioni, in condizioni di precarietà e sovraffollamento, che riguardano soprattutto gli strati più deboli. La società punisce soprattutto quelli che la disparità sociale sulla quale si regge ha condannato a stare in basso. Non dimentichiamo cosa il Covid abbia poi significato per la popolazione carceraria, in termini di perdita di diritti, a partire da quello più importante che a prescindere dal covid in carcere è già profondamente sacrificato: il diritto all’affettività”.

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Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.