Il confronto
Nevo, il cantore delle emozioni che ha ispirato il prossimo film di Nanni Moretti

Eshkol Nevo, nato a Gerusalemme nel 1971, è un grande scrittore di una grande letteratura, quella israeliana., nata dall’incrocio tra una immensa tradizione affabulatoria – quella ebraica (Atene ti spiega la realtà, Gerusalemme te la racconta…) – e una situazione altamente drammatica, conflittuale (le famiglie felici si somigliano, ma ogni famiglia è infelice nel suo modo proprio, che vuole essere narrato). In particolare Nostalgia, romanzo d’esordio, è forse la sua opera più ispirata: Amir e Noa – giovane coppia di studenti – si amano, fuggono e si tradiscono in un campo di transito tra Tel Aviv e Gerusalemme per i nuovi immigrati dal Kurdistan, tra un attentato e un altro (sullo sfondo l’assassinio di Rabin), e ripensano il semtimento della nostalgia («affinché il ritorno non diventi l’inizio del prossimo addio ci vuole un vero ambiamento nella natura dei rapporti»).
Intorno a loro si muove un microcosmo denso, brulicante di personaggi e di destini. Come Yehoshua anche Nevo scrive romanzi corali, polifonici (questo è epistolare), in cui si sfilano davanti ai nostri occhi visioni del mondo diverse, tutte in qualche modo giustificate, “necessarie”. E da qui si origina il senso del tragico, oltre che della enigmatica bellezza della vita. A volte può essere utile guardare alla nostra narrativa da una prospettiva esterna, da un’altra letteratura. Nostalgia finisce con una lettera del fratello di Amir, Modi, il quale scrive che vuole diventare meno cinico, che si è stufato di «fare finta che niente mi emoziona solo per non fare la figura del patetico». E proprio la lettera finale di Modi mi spinge a una considerazione. Il prossimo film di Nanni Moretti nasce da un adattamento di un romanzo di Nevo, Tre piani (per la prima volta dunque non da una storia originale). Ora, il film precedente, Mia madre era stato scritto insieme a Francesco Piccolo, che è scrittore ( e sceneggiatore) brillante e poliedrico.
Eppure tra Piccolo e Nevo c’è un abisso, che non dipende tanto dalla diversa misura del talento o della abilità compositiva o della intelligenza psicologica quanto dal diverso contesto che li esprime, dalla diversità tra società italiana e società israeliana. Riprendiamo la lettera di Modi. Che si propone di smetterla col cinismo: «Voglio farmi emozionare dalle piccole cose. Camminare scalzo sulla spiaggia. Mangiare il cono del gelato. Una doccia fredda d’estate. Graffiti colorati su un muro sporco. Una musica che non conosco. Non farmi la barba. Farmi la barba dopo molto tempo e passare la mano sulla guancia liscia. Voglio emozionarmi per queste piccole cose. Non lasciarmele sfuggire». Ecco, questo elenco non ha nulla di retorico o di edificante: nasce dal dolore, dal fallimento, dal conflitto.
In questo caso le piccole cose di cui emozionarsi non sono diventate i “momenti di trascurabile felicità” (e sequel “momenti di trascurabile infelicità”) di Piccolo, e cioè un catalogo divertente, salottiero e un po’ modaiolo di accidenti del quotidiano. Piccolo è un abile intrattenitore, dotato di irresistibile senso dell’humour e fine capacità di osservazione, ma non sa e non vuole andare al di là dell’intrattenimento (potrei aggiungere: anche perché i suoi lettori, smaliziati e un po’ “cinici”, non glielo chiedono). Nevo invece non intende soprattutto “intrattenerci” (anche se, inevitabilmente, lo fa). Attraverso i suoi romanzi ci dice alcune verità essenziali sulla condizione umana (sempre Modi conclude la lettera così: «Voglio guardare di più negli occhi. Dire la verità, di più»), e offre al lettore nientedimeno che delle ragioni di vita. Ci ricorda la funzione primaria della letteratura.
Anche perciò mi ha convinto di meno la serie delle storie che Nevo aveva scritto per Vanity fair ora raccolte in un Vocabolario dei desideri (Neri Pozza, come tutti gli altri suoi libri, e con le illustrazioni di Pax Paloscia). Nevo è più fondista che velocista, non ha il passo corto della micronarrazione, dell’apologo fulminante (come invece, poniamo, Kurt Vonnegut), dove invece tende a semplificarsi ( e perfino qualche volta a banalizzarsi). Sono ventisei, come le lettere dell’alfabeto. Prendiamo ad esempio “F”, Ferita, dove una bambina al supermercato si schiaccia le dita tra due carrelli e viene consolata dalle commesse. Lei chiede al padre perché parlavano strano, e lui le risponde che hanno l’accento arabo, sono arabe, e commenta: «Era gentile». In questo caso, mi pare, i “piccoli momenti” dell’esistenza, che contano più delle ideologie, finiscono in un raccontino alla libro Cuore (bastasse la casuale gentilezza di una commessa…). Prevale la trovata, l’intento pedagogico, e una felice attitudine ludico-combinatoria (una delle storie è omaggio a Calvino).
Mentre nell’Ultima intervista, uscito quest’anno, ritrovo interamente il Nevo dei suoi grandi romanzi. Si tratta di un romanzo piuttosto lineare e tradizionale, movimentato però dall’idea di uno scrittore che si racconta rispondendo a una intervista via mail. Un romanzo quasi senza trama, perché di trame ne ha troppe, tutte abbozzate. Qui lo scrittore parla di sé, della famiglia, dell’amore, della solitudine, ma anche di Israele e di politica. E anche qui ritroviamo la nostalgia: non tanto nostalgia di qualcosa andato perso ma nostalgia di quanto non abbiamo avuto, di quanto abbiamo solo sfiorato prima che sparisse. Le lettere dello scrittore, io narrante, alla sua amata Dikla, cominciavano tutte con “non svanire”, e sono svanite… Torno alla considerazione che facevo prima. Nevo attraverso lo stile dei suoi romanzi può dirci delle verità (urgenti) su di noi, sulla vita stessa, sulle “piccole cose”che la scandiscono, sulle emozioni primarie, senza mai apparirci patetico o “buonista” (aggettivo sprezzante che rivela solo il cinismo di chi lo usa). La nostra variegata narrativa, che certamente ha delle punte eccellenti, riesce ancora a farlo?
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