“Che bella cosa, stiamo tutti e tre come i vecchi tempi. E come i vecchi tempi le cose non sembrano cambiate: ci odiamo con disinvoltura e Pasquale sta sempre sotto il pacchero di Margherita”. A parlare è Enrico, uno dei quattro personaggi protagonisti dell’ultimo romanzo di Francesco Spiedo, Non muoiono mai (Fandango, pp.304). In un torrido agosto si riuniscono, nell’ampia villa con giardino, orti e terre a Palma Campania, i tre nipoti della novantenne signora Serravalle: Enrico, Pasquale e Margherita.

Dopo molti anni si trovano sotto lo stesso tetto dei giochi dell’infanzia, anche se la seconda generazione (i genitori) è totalmente assente, e a fianco della nonna con sollievo di tutti il nonno non c’è più. Enrico aggiunge una chiave di lettura alla storia: “Sono sicuro che se lei gli chiedesse di dare fuoco a tutte le sue amate piante di limone, Pasquale non ci penserebbe due volte. Una fiamma soltanto per fare contenta la cugina. È stupido come tutti gli innamorati, senza un motivo. Dimentichiamo guerre, povertà, crisi ambientali ma non siamo capaci di scordarci il viso di una donna”. Sul “mai” del titolo, in effetti, Spiedo crea un malinteso che innerva la stessa psicologia dei personaggi, la trama della storia e il suo senso più profondo: all’inizio, a non morire mai sono i vecchi che Enrico non sopporta più, la generazione di anziani (compresa la nonna volitiva e intollerante) che abita impassibile i paesi del Sud pronta a riscuotere pensioni e assegni sociali, indifferente alla sorte dei più giovani.

Il “mai” iniziale traduce insomma tutta l’insofferenza di Enrico per il vecchiume di Palma Campania, della casa avita, della nonna che non si decide a morire lasciandogliela. Mano a mano che scorrono i capitoli (con quattro voci che si alternano: i tre nipoti e la nonna, fino alla voce finale – origine di tutto), la vacanza claustrofobica dei cugini assume la tensione di una resa dei conti inconscia dietro la quale, oltre a svelarsi le deboli condizioni psicologiche di Enrico, Margot e Pasquale, verrà illuminato un mistero familiare, generato in una notte di bombardamento su Napoli tra il 14 e il 15 marzo del 1944. A non morire mai non saranno allora più i vecchi, ma i nodi in attesa di scioglimento attorno a cui le nostre vite sono rintrecciate, e le forme, psichiche e sentimentali, di questi nodi: ricordi, rancori, nostalgie, passioni.

A non morire mai è la figura dell’apparizione miracolosa dell’amore in una notte ormai remota che riesce a impartire alla generazione attuale ogni possibile insegnamento, l’unica lezione compiutamente letteraria e sempre perfettamente uguale a se stessa. Poiché “sono i giovani che ricordano, che devono ricordare”. Spiedo ha quindi inteso raccontare quella storia, sempre la stessa. Si diverte a farlo col linguaggio (dominato, quanto a lui, dalla luce dell’intelligenza e della pietà) della sua generazione e, al contempo, con un gioco di rimandi a voci, visioni e temi della letteratura d’ambientazione napoletana del secondo dopoguerra. Lo fa con la serietà di chi crede che il romanzo non è un inabile di guerra ormai, ma una trama di radici profonde che attende le voci giuste per l’ennesima rappresentazione: e lui le voci giuste le ha trovate, felicemente.