Alle storie che sanno raccontare la ridefinizione dei ruoli e degli affetti nella cornice di ciò che chiamiamo “famiglia”, tenendosi rigorosamente lontani da sociologismi, predicazioni e manifesti, va ascritto l’ultimo romanzo di Leonardo G.Luccone, Il figlio delle sorelle (Ponte alle Grazie). Chi sono, questo figlio, e queste sorelle? Un uomo psichicamente fragile – e molto abile a preparare ottimi cocktail alcolici – si trova al centro di una complicata rete di affetti e attese femminili. C’è la sua prima moglie, Rachele, col suo desiderio indomito di mettere al mondo un figlio (“Inseminazione artificiale, espressione mai pronunciata.

Tu, maestra del non dire, hai usato un repertorio di svicolamenti… Non chiamare le cose per nome ci ha divaricato”); c’è una figlia, Sabrina, che è il frutto di quella fatica di restare incinta; c’è una sorella minore di Rachele, Silvia, sostanzialmente identica alla sorella maggiore, che a un certo punto va a vivere a Milano e ha una propria figlia, Corinna, e come accaduto per Rachele e Silvia, così pure Sabrina e Corinna pare (non si sono mai incontrate) che siano due gocce d’acqua; c’è Carlotta che è figlia di Gilda, ed è fidanzata con Sabrina, e Gilda è l’attuale compagna del papà di Sabrina, che un po’ è anche papà di Carlotta, dunque; e c’è una vecchia zia, Ester, che vive in Sicilia e che padre e figlia (Sabrina) andranno a salutare verso la fine del romanzo…Questa rete apparentemente pesante e oscura di legami, che sottende molti non detti, probabili menzogne, tenaci riserve mentali, viene restituita dalla costruzione narrativa – tesa e intensa – di Luccone in una forma “leggera” e antica, quella dei dialoghi, intervallati da pezzi di racconto sul presente, il passato, il futuro: i dialoghi di Luccone, reviviscenza letteraria di un patrimonio di conoscenza che risale alla filosofia e al suo nesso col mito (Platone: il viaggio in Sicilia dei protagonisti, infine, è il luogo di una memoria collettiva), e che viene proposto con la discontinuità frammentata, non sistematica del diario cinematografico e della pièce teatrale, del linguaggio comune del presente che attraversa un “tempo sparpagliato su un lenzuolo lunghissimo”.

Perché “molti credono che le storie debbano essere dette dall’inizio alla fine, in bella copia, nel modo più preciso possibile”, ed invece “quelle che contano sono le dominanti, esplicite o no”. In questa forma, che richiede al lettore, come per i dialoghi antichi, un’immersione totale e rallentata, le vite dei personaggi prendono una fisionomia accurata e un respiro palpitante. Soprattutto avvertiamo il dolore del protagonista, che forse non voleva essere padre e che è stato malissimo tanto da lasciare moglie e figlia quando Sabrina era molto piccola; e sentiamo tutto il dolore speculare di Sabrina per l’abbandono e il ritrovamento: i dialoghi tra padre e figlia vengono chiamati da Sabrina la stanza delle parole, un luogo (spesso l’auto del padre) per riprendere il processo della conoscenza interrotta e reintegrare le lacune, avviare la cicatrizzazione delle ferite. Sabrina vorrebbe sapere molte cose. Così come il padre.

Per esempio, perché non esiste una foto di Rachele incinta di Sabrina. Oppure perché Silvia sia andata a Milano improvvisamente. O ancora perché Corinna e Sabrina, cugine, non si sono mai incontrate. La novità dell’approccio di Luccone sta però in questo: che la tensione dell’indagine non si scioglie in svelamenti oggettivi (la grande illusione di trovare nella realtà la verità dei dati oggettivi: “Ci ho messo un’era geologica a capire che le cose hanno per ognuno una fisionomia diversa. Che ognuno vede un diverso profilo del mondo, compreso il cantuccio che ha sotto gli occhi”). Qui la verità storica è impossibile. E si scioglie piuttosto in una terra mitica, nella visione rapinosa di Sabrina presso il lago di Pergusa, nel contatto con un uomo, e con un pozzo, che rimandano all’archetipo della vergine Proserpina sottratta alla possessiva madre divina. Soprattutto si scioglie, per il dolente protagonista, padre che non è padre, uomo adulto che resta figlio, creatura fragile e silenziosa, nella ineluttabile presa della sofferenza psichica, girone da cui è impossibilitata fuggire: “Il futuro che avevo immaginato si allontana ogni giorno, non sarà mai presente e mai passato.

È un album da sfogliare in solitudine, ricominciando quando salta un nesso che l’automatismo della ricostruzione non è riuscito a creare. Sarà per la prossima volta, ci diciamo”. Il figlio delle sorelle – grazie a una scrittura sempre al confine con la fuggevolezza trepida dell’oralità e della performance irripetibile che è propria della voce parlata e ascoltata (di una tenerezza lancinante dal fascino straordinario sono soprattutto i dialoghi tra padre e figlia) – riesce così a ricucire i brandelli delle nostre vite familiari, dei ruoli che ci ostiniamo a conseguire, della sofferenza ingenerata da aspettative impossibili. E della bellezza intima di un racconto che esige e attua un rigoroso pudore.