Mario Ferrillo aveva 47 anni quando nel 1986 fu crivellato di colpi per mano camorrista. Morì sul colpo nel negozio di un suo amico a Licola. Lui, impresario dello spettacolo, di Calvizzano, non c’entrava nulla con quell’ambiente, fu ucciso perché fisicamente identico a Gennaro Troise, un esponente della malavita locale, vero bersaglio di quell’agguato.

Un errore, che lasciò senza padre 4 figli, tra cui Marianna oggi 40enne. “Papà è stato riconosciuto dallo Stato come vittima innocente della camorra – racconta Marianna – ma non possiamo beneficiare della legge 302/90 (per le vittime della mafia, ndr) perché abbiamo presentato la domanda anni dopo, troppo tardi, quando la morte di mio padre era stata archiviata senza responsabili, andata in prescrizione. Ma una morte può andare in prescrizione?”.

Il ritardo nella consegna della domanda ha escluso la famiglia Ferrillo dal risarcimento economico e dal sostegno dello Stato per altre attività come ad esempio trovare lavoro, supporto psicologico e sociale per i membri della famiglia della vittiam. Il tutto per la decorrenza dei termini di consegna della domanda. Marianna ha scritto al Presidente della repubblica Sergio Mattarella chiedendo che quella legge venga cambiata e anche la sua e tante altre famiglie nella sua stessa condizione possano avere quel riconoscimento.

“Noi non vogliamo essere abbandonati dallo Stato – continua Marianna – Lo Stato ci dice di non avere paura della camorra, se siamo tutti uniti la sconfiggeremo. Io non ho paura della camorra ma del danno che porta la camorra. Voglio che lo Stato in quelle parole che lui esprime dicendo ‘denunciate’ poi è di supporto per le famiglie. Io avevo solo 10 anni quando ho perso papà, mamma si è indebitata per fargli il funerale e ha dovuto crescere da sola 4 figli. Tutto questo ancora oggi non ci è riconosciuto”.

Il 5 novembre 1986 Mario si trovava nel negozio di un amico a Licola. Sua moglie era con lui. Andò via la luce e due uomini a volto coperto chiesero a Mario “sei tu Gennaro?”. Non gli diedero il tempo di rispondere, e pochi attimi dopo si sentì il rumore dei colpi. “All’inizio si pensò a una tentata rapina – racconta Marianna – poi che mio padre non avesse pagato qualche tangente. Poi un mese dopo fu ucciso Troise nello stesso luogo. La somiglianza con mio padre era impressionante. Il caso di mio padre fu archiviato perché contro ignoti”.

Marianna racconta che con la sua famiglia ha dato fondo ai risparmi per riuscire ad avere quel riconoscimento “per dare voce al dolore e giustizia alla morte di mio padre. Quando abbiamo perso la causa è stato come perdere due volte. Lui è un uomo che ha vissuto, non è un fantasma. Esiste ancora nei nostri cuori. Di porte in faccia me ne hanno già chiuse abbastanza ma io non mi arrendo. Voglio che papà abbia giustizia”.

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Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. È autrice anche di documentari tra cui “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.