La maxi inchiesta della 'ndragheta
“Pennisi fu rimosso per contrasti con Mescolini”, la verità del procuratore Alfonso
“Fui io, e nessun altro, a creare e coordinare l’indagine Aemilia”, dichiara l’ex procuratore di Bologna Roberto Alfonso. La maxi inchiesta sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Emilia Romagna – il primo grado si è chiuso ad ottobre del 2018, l’appello è in corso da alcuni mesi nell’aula bunker del carcere bolognese della Dozza – è tornata prepotentemente d’attualità dopo la pubblicazione della chat fra il procuratore di Reggio Emilia Marco Mescolini e l’ex presidente dell’Anm nonché della Commissione per gli incarichi direttivi del Csm, Luca Palamara. Mescolini, nella primavera del 2018, aveva ripetutamente caldeggiato con Palamara la propria nomina, avvenuta qualche mese più tardi, a procuratore di Reggio Emilia. Il tenore di alcuni messaggi, “su Reggio fai di tutto per chiudere. È importante per tutto”, ha suscitato diversi interrogativi. M5s, Lega, FdI e Forza Italia hanno chiesto a Mescolini di chiarire l’esatto significato di tale interlocuzione.
Procuratore Alfonso, senza entrare nel merito di questa chat che dovrebbe essere oggetto, da quanto appreso, di una autonoma valutazione ai fini disciplinari da parte del procuratore generale della Cassazione, può ricostruire le fasi dell’indagine Aemilia?
Alla fine del 2009 venni nominato dal Csm procuratore di Bologna. Una delle prime cose a cui mi dedicai fu la riorganizzazione della Dda e la gestione delle indagini antimafia.
Che situazione aveva trovato nel distretto di Bologna?
Ogni episodio delittuoso che accadeva veniva trattato singolarmente. Mancava una visione d’insieme. Capii subito che era necessario cambiare strategia e metodo investigativo.
In concreto, che cosa accadeva?
Non venivano effettuati approfondimenti. Oltre a trattare ogni episodio come un fatto singolo, si inviavano gli atti alla Procura di Catanzaro in quanto zona di origine di queste cellule criminali.
Si riferisce ai clan cutresi presenti a Reggio Emilia?
Sì. Si pensava che l’attività decisionale di questi soggetti si formasse a Cutro e non a Reggio Emilia. Invece i cutresi di Reggio Emilia avevano grande autonomia.
Che clima trovò al suo arrivo?
Collaborativo. Ricordo che c’erano stati appelli contro le infiltrazioni della ’ndrangheta da parte del presidente della Confcommercio. Il prefetto di Reggio Emilia Antonella De Niro, che poi partì con le prime interdittive antimafia e per questo venne minacciato, ci diede un grande aiuto.
Ha detto che riorganizzò la Dda. In che modo?
C’erano tanti magistrati validi che non si erano mai occupati a fondo di ‘ndrangheta. Decisi di chiedere all’allora procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso l’applicazione di un sostituto della Dna. Chiesi il dottor Roberto Pennisi che conoscevo e che aveva grande esperienza di metodo mafioso e di indagini di ‘ndrangheta.
E Mescolini? A proposito di Aemilia, nella proposta del Csm per la sua nomina a procuratore di Reggio Emilia si legge che “ha sin dall’inizio (2010) diretto le indagini, coordinato l’attività dei diversi organi di polizia giudiziaria”.
Lo avevo chiamato io a far parte della Dna (la designazione risale al 15 aprile 2010, ndr). Era il più giovane e mi sembrava che avesse le caratteristiche giuste per le indagini che avevo in mente di fare.
Perché Pennisi non venne più applicato?
Per contrasti tecnici-operativi con Mescolini su alcune posizioni da definire. Pennisi aveva una diversa impostazione per le richieste custodiali. Poi subentrarono anche contrasti personali.
Cosa fece Pennisi?
Decise di non far più parte dell’indagine. Me ne parlò. Io non potevo obbligare nessuno a restare. Venne informato di questa decisione il procuratore nazionale che nel frattempo era diventato Franco Roberti. Quindi non chiesi alcuna proroga per Pennisi.
Che ruolo aveva Pennisi?
Aveva la delega per il collegamento investigativo su Bologna con la Dna e la delega per le indagini specifiche. E fu questa delega a non essere prorogata.
Dalla Dna non venne mandato alcun pm. A chi rimase la delega?
Ai colleghi di Bologna. Oltre a me, Mescolini, Enrico Cieri e Beatrice Ronchi.
Fece qualcosa per cercare di superare questi contrasti fra i due magistrati?
Io facevo una riunione di coordinamento settimanale dove davo l’impronta e la traccia investigativa. Per le attività essenziali partecipavo direttamente (vedasi l’esame come persona informata dei fatti, ad ottobre del 2012, dell’allora sindaco di Reggio Emilia Graziano Del Rio, ndr).
Le riunioni erano solo a Bologna?
Venne fatta una riunione anche a Roma davanti al procuratore nazionale dove partecipò anche il procuratore di Catanzaro.
Che rapporti aveva con Roberti?
Un rapporto risalente. Siamo stati in corsa per il posto di procuratore nazionale antimafia e vinse lui al ballottaggio. Abbiamo lavorato insieme tanti anni alla Dna. Ci è stato sempre vicino. Quando ci furono gli arresti venne alla conferenza stampa.
Pennisi lasciò l’incarico otto mesi prima dell’esecuzione delle misure cautelari. Lei?
Cinque mesi dopo, a luglio del 2015 andai a Milano come procuratore generale. E non ho seguito più nulla dell’indagine. Come vuole la legge.
Si è parlato di note dei Servizi su esponenti locali del Pd che non sono state approfondite.
Le note dei Servizi sono uno spunto per le indagini. Poi però servono le prove, ci vogliono elementi certi per fare i processi.
Si è parlato del viaggio che l’allora sindaco Delrio aveva fatto a Cutro, paese d’origine del boss Nicolino Grande Aracri.
Come dissi a suo tempo era una posizione che bisognava approfondire. Ricordo che alle riunioni dicevo: “Ragazzi con tutto il materiale raccolto c’è da lavorare per dieci anni”.
Quindi ci sarebbe ancora tanto da fare?
Ripeto, non so cosa è successo dopo. Parlo solo delle cose che conosco e che ho fatto. E comunque si è sempre in tempo per andare avanti. L’indagine può durare tanti anni.
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