Ti guardano, dalle fotografie rigorosamente in bianco e nero, fra perplessi e incuriositi nelle baracche dove vivono, sistemati come possono dentro scatole di cartone, sotto impalcature improvvisate nei tuguri thailandesi, nei cavalcavia delle free ways di Miami, seduti agli angoli dei marciapiedi di Mexico City, oppure semplicemente abbandonati a se stessi, spalle contro il muro scalcinato, in Africa, Cina, Filippine, Pakistan, Yemen, Serbia, Russia, Siria, Scozia, Irlanda. Bambini tristi con gli occhi persi davanti a ciotole vuote.

Questuanti polverosi di follia che cercano di suonare la fisarmonica rotta. Misere donne segnate dalla malaria con le figlie attaccate alla manica della vestaglia. Eschimesi alcolizzati in Alaska, la signora imbacuccata poggia il capo sulle spalle dell’amica ubriaca. Ragazzini che abitano dentro velivoli distrutti, residuati bellici, mischiando il gioco alla disperazione. Barboni sdraiati in terra, i quali non rinunciano a esibire, alla maniera di una sfida, il segno della vittoria.

Sono i vagabondi, storpi, derelitti, che William T. Vollmann, fra gli scrittori americani più originali dei nostri tempi, ha raccontato nel suo Poor People, tradotto in italiano per l’editore minimun fax da Cristina Mennella come I poveri (pp. 384, 19 euro): straordinario reportage, diviso in due sezioni, una fotografica, l’altra composta da interviste ai miserabili presenti in ogni zona del pianeta, di pari dignità espressiva. I personaggi di quest’opera, veri più del vero, sono presenti fra noi. Basta scendere di casa per scoprirne qualcuno. Come dice l’Evangelista (Marco, 14, 7), li avremo sempre vicini. L’autore, con l’aiuto degli interpreti, ne ha interpellati a decine chiedendo loro la ragione per cui si sono venuti a trovare nello stato d’indigenza. Nessuno ha saputo rispondergli. «I soldi vanno dove vogliono» si è limitato ad esclamare un senzatetto giapponese, sottolineando il fatto che i governanti del suo Paese avevano stanziato la bellezza di cinquecento milioni di yen (poco meno di cinque milioni di dollari) per mandarli via.

Vollmann, nel suo repertorio di sventurati sparsi nel globo, ci lascia senza fiato, accostandoli uno all’altro senza fare prediche. La sua scrittura non esce quasi mai dal binario descrittivo che si è autoimposta per costringersi alla visione precostituita: ne deriva un tono allucinato da visita guidata negli abissi del torpore, del fatalismo, dell’ignavia, quali reazioni istintive di chi non ha più risorse. Sarebbe proficuo leggere questa denuncia documentata come un trattato scientifico e tuttavia carica di tensione civile in contrappunto mirato insieme all’inchiesta ugualmente drammatica, uscita qualche anno fa da Einaudi, dello scrittore argentino Martín Caparrós: La fame.

In quest’ultima opera, anch’essa come la precedente di genere inclassificabile, troviamo numeri rivelatori e statistiche stupefacenti: ad esempio i due milioni di bambini che ogni anno muoiono in India, la metà dei quali a causa di denutrizione. Ripetiamolo ancora: due milioni all’anno. Ma ci sono anche panorami di città che un tempo avremmo trovato nei romanzi di Emil Zola. Tipo questa riferita a Dacca, scapigliata capitale del Bangladesh: «È una giungla di corpi e bidoni. Camminare è saltare tra corpi in movimento – persone, biciclette, risciò, moto, macchine, autobus – che ti si buttano addosso ed è difficile mettere da parte uno dei presupposti basilari dei pedoni nelle città: ovvero che gli altri – quelli che guidano qualcosa – preferirebbero non ucciderti. Non è molto chiaro cosa preferiscano questi; lo è che, per scelta o per religione o per comodità, non si fermano davanti a niente».

Sarebbe troppo semplice liquidare questo cieco fatalismo, non foss’altro perché lo potremmo rinvenire, ahimè, anche nel nostro stesso atteggiamento di fondo nei confronti dei nuovi dannati della Terra. Andiamo avanti a ogni costo continuando a costruire fabbriche, palazzi e centri commerciali, con la medesima indifferenza nei confronti di chi resta indietro che la pandemia ha contribuito a ridicolizzare, mostrando gli ingranaggi scoperti della Grande Falciatrice pronta a colpire senza soluzione di continuità da Manhattan a Kinshasa per gridarci ancora una volta nelle orecchie ciò che non vogliamo ascoltare: non puoi salvarti da solo!

Di fronte allo scempio William T. Vollmann, conoscendo la sostanziale inutilità dei precetti pedagogici, avendone anzi piuttosto il terrore, ci consegna un autoritratto impietoso: «Un omone bussò forte alla mia porta. Gli serviva aiuto; era rimasto senza benzina. Mentre mi cercavo qualche moneta in tasca, cercò di entrare dandomi una spinta. Gli sferrai un violento calcio al ginocchio facendolo ricadere fuori. Poi gli sbattei in faccia la porta blindata. Continuò a bussare per un bel pezzo, urlando che mi avrebbe ammazzato. Più tardi bussarono alla mia porta ma non aprii. Toccava a me salvare tutti sulla Terra? Cosa ci danno in cambio dei nostri soldi?».

Martín Caparrós, nel finale del suo libro, sembra raccogliere la sconsolata sconfitta di questo “pensiero per l’altro” offrendo a tutti noi un’estrema contrapposizione operativa: «Credo che sarebbe utile separare l’azione dai risultati dell’azione. Non fare quel che voglio per la possibilità del risultato ma per la necessità dell’azione: perché non sopporto di non farlo».

È un sussulto che non dovremmo lasciar passare invano sotto gli antichi ponti dove continuano a scorrere i fiumi degli antenati. Se le future generazioni politiche, almeno quelle interessate a ripescare qualche vecchia carta delle ragioni che illuminarono o spensero la cosiddetta sinistra novecentesca, avessero ancora un po’ di buon senso, potrebbero piuttosto cominciare a ragionarci sopra: «Allora: pensare a come sarebbe un mondo che non suscitasse vergogna o senso di colpa o scoraggiamento – e immaginare come cercarlo».