Differenza tra lordi e netti
Pensioni, l’Ocse fa le pulci all’Italia ma sbaglia i conti

Il 27 novembre l’Ocse – l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, alla quale aderiscono 36 Paesi industrializzati europei e del G20 – ha presentato l’ottava edizione del suo rapporto biennale “Pensions at a glance”. Il Rapporto illustra e analizza una serie di indicatori per confrontare le politiche pensionistiche dei Paesi aderenti all’Organizzazione e i loro risultati. Tra questi Paesi c’è, naturalmente, l’Italia. Cosa ci dice il rapporto sul nostro Paese? La prima osservazione è sull’età pensionabile. Ebbene l’Italia, con un requisito anagrafico per il pensionamento di 67 anni è, assieme a Norvegia, Israele e Islanda, il Paese con l’età pensionabile di legge più alta. Guardando al futuro, un giovane che abbia iniziato a lavorare nel 2018, in base alle norme della legge Fornero – con l’aggancio del requisito anagrafico all’attesa di vita, al momento, congelato fino al 2026 – andrà in pensione a 71 anni come i coetanei di Olanda ed Estonia. Solo i danesi dovranno vedersela con un’età pensionabile più alta: 74 anni. La media, per i Paesi Ocse è, al momento attuale, di 64,2 anni ed è destinata a salire a 66,1, in ogni caso al di sotto del target italiano. Questo, diciamo così, sulla carta; perché, rileva il rapporto, in Italia l’età media effettiva di pensionamento è di 62 anni (63,3 anni per gli uomini e 61,5 anni per le donne) a fronte di una media Ocse di 65,4 anni per gli uomini e di 63,7 anni per le donne.
A questo punto, l’Organizzazione individua una sfida per l’Italia: quella di “mantenere adeguati benefici per gli anziani limitando la pressione nel breve, medio e lungo termine”. E, su questa base, critica duramente le misure introdotte, nel tempo, per limitare gli effetti dell’incremento indiscriminato dell’età pensionabile della legge Fornero. L’Italia è, infatti “accusata” – così come l’Olanda, la Slovacchia e la Spagna, di aver fatto marcia indietro rispetto alle precedenti riforme, mettendo così a rischio la stabilità macroeconomica. Il rilievo si riferisce a Quota 100, Ape social e volontaria e Opzione donna che hanno reintrodotto alcune forme di anticipo pensionistico. Questo ignorando il fatto che, ad esempio, non tutti i lavori sono uguali e che alcune di queste misure sono riferite a lavori gravosi e usuranti, o alle difficoltà incontrate, tra conciliazione della vita privata e lavorativa, da molte donne; situazioni che rendono davvero iniquo un avanzamento indiscriminato dell’età della pensione. L’Ocse individua queste eccezioni, soprattutto, come strumenti di consenso politico sul breve periodo. Ciò può avere un senso per Quota 100 che non è una quota – cioè la somma di età anagrafica e anni di contribuzione che diano un certo risultato come, ad esempio “100” – ma una “finestra” dedicata solo a coloro che, nati tra il 1956 e il ’59, a 62 anni di età abbiano accumulato 38 anni di contribuzione. In ogni caso, Quota 100 è una misura non strutturale che si esaurirà nel 2021 e che non sarà rinnovata. Ma veniamo al punto politicamente più rilevante tra quelli sollevati dall’Ocse. La questione del peso finanziario del sistema previdenziale italiano in rapporto al Pil e, perciò, la sua sostenibilità. Ossia, che l’Italia è il secondo tra i Paesi Ocse per la spesa pensionistica, contabilizzata al 16% del Pil.
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A questo, si somma il fatto che è il Paese in cui si versano più contributi. Cosa c’è di sbagliato in questa affermazione? Una serie di fatti. Primo, l’Italia contabilizza il costo delle pensioni lorde. Già perché, facendo un esempio, una pensione lorda mensile di 1.500 euro corrisponde a 1.150 euro netti, perché il lavoratore ne restituisce allo Stato 350. Se questo non viene considerato si va al 16%, altrimenti saremmo circa al 12%, cioè allineati con i parametri medi europei. Ma c’è dell’altro. L’Italia, infatti, si è preoccupata per tempo della sostenibilità del proprio sistema previdenziale, realizzando numerose riforme con i Governi Amato, Dini e Prodi. Il Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica 2016 della Corte dei Conti stabiliva, così, che “la riforma del 2007 (Damiano-Prodi, ndr) ha permesso una riduzione pari all’uno per cento di Pil ”all’anno, e ciò “per un periodo di almeno quindici anni”. Quanto alle riforme del biennio 2010-2011, hanno garantito “una ulteriore riduzione di pari ammontare”. Insomma, secondo Corte dei Conti, la riforata dal secondo Governo Prodi, ha portato come risultato un risparmio pari a un punto percentuale di Pil all’anno; il che, per quindici anni (2008-2022), fa 225 miliardi di euro. Se poi ci proponiamo di analizzare, nel loro insieme, gli effetti concreti che sono stati generati dalle riforme previdenziali sulla spesa per le pensioni a partire dal 2004 (Maroni, Damiano, Berlusconi, Fornero), “cumulativamente, la minore incidenza di tale spesa in rapporto al Pil […] ammonta a circa 60 punti percentuali di Pil fino al 2050”. Questa citazione è tratta dal Documento di economia e finanza del 2016, redatto dal Mef. Si noti che 60 punti di Pil equivalgono a circa 900 miliardi di euro di risparmi.
C’è, infine, un’ultima, rilevante, questione da segnalare. Infatti, quel 16,2% del Pil comprende anche le spese per l’assistenza, ossia quella per la Gias – Gestione Interventi Assistenziali che riguarda, per capirci, pensioni di invalidità civile, indennità di accompagnamento, pensioni e assegni sociali e altre prestazioni assistenziali. Da molti anni si sostiene la necessità di separare la contabilizzazione della Gias da quella delle pensioni. Basti citare la legge 9 marzo 1989, n. 88 del Governo De Mita, che prevedeva l’avvio di un percorso di separazione fra previdenza e assistenza, con trasferimento di risorse provenienti dallo Stato per coprire le voci assistenziali che sono gestite dall’Inps, ma sono in carico alla fiscalità generale. Così è, ad esempio, per l’assegno sociale che viene erogato dall’Pe, ma non è legato ai contributi previdenziali. Sarebbe ora di affrontare tale questione. In modo tale da offrire anche alla valutazione degli organi sovranazionali come l’Unione Europea e l’Ocse una fotografia più realistica della spesa pensionistica italiana. Cioè, di un sistema sostenibile per il Paese quale questo è nella realtà. Superare, insomma, gli allarmismi e concentrarsi sulla realtà per aggiornare il nostro sistema alle sfide del futuro.
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