La cd. legge Cartabia di settembre dello scorso anno, tra i tanti ambiti di intervento finalizzati a migliorare l’efficienza del processo penale, ne attinge uno che si mostra particolarmente significativo: il Pm non potrà più chiedere la celebrazione del processo, e il giudice non la potrà più disporre, se gli atti d’indagine non rendono probabile una successiva condanna. Il precedente criterio di valutazione, quello della semplice utilità del dibattimento, è stato infatti eliminato.

Quest’apprezzabile svolta riformista, che mira a ricondurre a ragionevolezza i dati impietosi sulle assoluzioni pronunziate all’esito dei giudizi di I grado (tra il 40% e il 50% nel biennio 2020-2021), pur innovativa nella sua incisività, non è certo la prima della quale si fa carico il legislatore. Vi erano stati, infatti, precedenti interventi, che non erano riusciti a porre un freno alla distorsione, dalle gravi ricadute sociali, dei tanti, troppi processi, conclusi poi con la certificazione dell’assenza di responsabilità dell’imputato. Una nuova disciplina, dunque, finalmente c’è. Essa descrive un rinnovato quadro normativo, che risponde positivamente all’esigenza sociale che i processi vengano celebrati solo al cospetto di elementi di prova veramente solidi.

Tuttavia, non possiamo commettere l’errore di affidarci all’idea salvifica che il solo cambiamento delle regole del processo possa essere sufficiente. Se a questo non segue un radicale mutamento di approccio, culturale, tecnico-professionale e formativo dei suoi protagonisti, le riforme rischiano di ridursi a mera (e potenzialmente dannosa) proliferazione normativa. S’impone, dunque, una seria riflessione circa il significativo cambio di ruolo dei protagonisti della giurisdizione (nella fase di transito dalle indagini al giudizio), che la legge di riforma esige; e come esso vada affrontato. Infatti, il Pm, il giudice e i difensori delle parti private risultano oggi investiti di un importante incremento di responsabilità e discrezionalità di azione, decisoria e difensiva. Il Pm non potrà più richiedere il processo, facendo affidamento sul futuro dibattimento per colmare le lacune delle prove raccolte in fase d’indagini.

Il giudice competente per la fase antecedente al giudizio non potrà più essere mero certificatore notarile, un “passacarte” delle ipotesi di reato ricostruite dal Pm in fase d’indagini, da vagliare eventualmente in sede dibattimentale. Egli sarà gravato di un rinnovato ruolo decisorio di merito, sulla probabilità o meno di giungere a una sentenza di condanna. Alla stessa stregua, anche i difensori delle parti private, siano esse imputate o persone offese, saranno costretti a cambiare prospettiva. Da soggetti estranei alla fase prettamente investigativa del Pm e protagonisti con le prove a difesa del solo (inevitabile) dibattimento, gli avvocati dovranno diventare incisivi, attraverso un uso sistematico degli strumenti processuali a loro disposizione (primo fra tutti le indagini difensive), nelle fasi precedenti del procedimento: per cercare di evitare, o propiziare (a seconda del ruolo) lo sviluppo del successivo giudizio.

È necessario, dunque, un cambio netto di mentalità, che porti con sé un importante incremento di responsabilità, per pubblici ministeri, giudici e avvocati, che dovranno essere all’altezza di una così alta ambizione riformista. Entrano in gioco nuovi doveri professionali, che incombono su tutti gli operatori del processo. La strada da percorrere richiede certamente anche un adeguato parallelo percorso di formazione, che coinvolga in termini analoghi, se non comuni, magistratura e avvocatura. L’interesse da perseguire è unitario e non attinge, in prospettiva di contrapposizione dialettica, i diritti di categoria. In definitiva la legge delega di riforma del processo penale ha bisogno, per produrre i suoi effetti, di un nuovo approccio culturale al processo e di un rinnovato percorso di formazione condivisa, che coinvolga tutti i protagonisti tecnici della giurisdizione.

di Fabio Pinelli

Fabio Pinelli

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