Il terremoto in Rai parte con una nota di viale Mazzini delle 15,50. Mario Orfeo, direttore dell’informazione Rai, è rimosso. Su due piedi. In piena par condicio, a dieci giorni da elezioni e referendum. Mai successo. E succede tutto in casa giallorossa: Carlo Fuortes, ad in quota Dem gradito anche ai Cinque Stelle, silura uno dei numi tutelari in quota Pd.

Il giallo dovrà trovare un chiarimento istituzionale in Parlamento, dove Fuortes è atteso con urgenza. Il presidente della Vigilanza Rai lo dice al Riformista: «È una decisione che deve essere oggetto di chiarimento e confronto di fronte alla commissione di Vigilanza. La sostituzione della direzione di un settore di rilevanza strategica per l’informazione pubblica, peraltro in periodo di par condicio elettorale, non può avvenire senza che vengano rese note le motivazioni che hanno portato a tale determinazione nonché le azioni che l’azienda intende mettere in atto per procedere rapidamente alla copertura di questa posizione così delicata». Al Nazareno sono increduli. «Stupefatti dal metodo e dal contenuto», fanno trapelare fonti interne. «Il Pd difenderà Mario Orfeo», sottolineano. Michele Anzaldi, che in Vigilanza rappresenta Italia Viva, rincara: «Parliamo dell’informazione, che rappresenta – prosegue Anzaldi – la missione più importante del servizio pubblico pagato da quasi 2 miliardi di euro dei cittadini: possibile che non ci sia nessuna trasparenza?», si chiede.

Peraltro oggi, festa nazionale del 2 giugno, le attività parlamentari sono sospese fino a lunedì 6. Solo allora Fuortes potrà rendere note le sue ragioni alle Camere. La notizia agita ulteriormente le acque anche casa grillina. Acque parecchio agitate. Nel giorno in cui si apre a Tempio Pausania il processo a Ciro Grillo per una brutta storia di violenza sessuale aggravata, un’altra aula di tribunale attende il M5s. Alla sbarra c’è la leadership di Giuseppe Conte e il suo statuto. Quello che secondo i ricorrenti proprio non sta in piedi. Il ricorso presentato puntualmente dall’avvocato Lorenzo Borré a tutela degli iscritti che protestano contro l’inefficacia dei provvedimenti dell’ultimo anno è molto robusto. Si basa in parte su elementi già assunti dalla giustizia come essenziali e insuperabili: la mancata designazione formale di Conte da parte del Garante, mai depositata, è una violenta zappata sui piedi.

L’udienza di discussione è fissata per il 7 giugno, ma il gruppo dirigente contiano ha già superato invano il termine del 31 maggio per controreplicare. E in assenza di designazione di Grillo, che non c’è come non c’era la prima volta, il Movimento potrebbe andare in cenere, come la carta del suo statuto, concludendo in un’aula di giustizia il percorso intrapreso con le picche del populismo giudiziario. Il Vaffa delle toghe a Conte sarebbe questione di giorni, mentre quello di Grillo all’avvocato del popolo si consuma in privato. Le chat dei parlamentari grillini ribollono. Il M5s non sta riuscendo a ottenere candidature di peso nelle città al voto il 12 giugno. Nella Genova del fondatore è attesa una débacle, nella Parma di Pizzarotti il simbolo è scomparso.

A Rieti è stata presentata una unica lista grillina, che ha cinque stelle gialle ma nessun riferimento al Movimento: c’è invece scritto solo Con Te, con un esplicito riferimento al leader. Grillo, al vederlo, è andato su tutte le furie: “Non esistono personalismi”. Dalla Sicilia, dove si faranno le primarie di coalizione dopo un accordo Letta-Conte volto a incoronare Cancelleri, si fa strada un sospetto: la macchina dei Dem lanciata in corsa potrebbe finire per ribaltare i pronostici della vigilia e finalizzare l’operazione pro domo sua. Costringendo a quel punto, obtorto collo, il Movimento a votare per i candidati che solo fino a tre anni fa definiva “Pidioti”. Nell’ottica di questo difficile passaggio per Conte, non è da escludersi un colpo di coda dell’ex premier che il 21 giugno in aula, a Palazzo Madama, farà giocare ai suoi pretoriani quella che potrebbe essere la sua ultima partita. Tutti lo sanno.

Il corno della caccia risuona non solo al Senato ma anche a Montecitorio, dove Roberto Fico, schierato con Conte, prova a mediare. Perché se il Movimento si impunta, cade tutto. La discussione sulle armi, sulla ratifica della sesta ondata di sanzioni e sullo scenario ucraino può mandare in pezzi la maggioranza. Lo avverte Matteo Renzi: “Preparatevi perché il 21 ne vedrete delle belle”. E non è da escludersi che nel repulisti alla Rai abbiano pesato i riequilibri in seno alla maggioranza, dopo le polemiche sugli ospiti filorussi nei talk show e le polemiche sulla conduzione di Bianca Berlinguer.

Nel Pd, è Andrea Marcucci, Base riformista, ad avvisare i grillini: “Sulla guerra bisogna parlare con una voce sola”. Tra loro, nel M5s e in Alternativa c’è, nella componente di Italexit come pure in parte della Lega, la voce sola è quella di Petrocelli, che impera nelle chat e nelle discussioni interne. Da Palazzo Chigi trapela fastidio per il comportamento di Conte. Luigi Di Maio è con Draghi fino alla morte. E anche il ministro dell’Agricoltura Stefano Patuanelli è impegnato per giungere a un compromesso. Ma la rottura resta un’opzione sul tavolo. Gli scenari in vista del 21 giugno sono tre.

Il primo: il M5s presenta una propria risoluzione per chiedere al governo il no all’invio di armi. Se il documento contiano incassa la maggioranza in Senato, il premier Draghi non può escludere le dimissioni. Secondo scenario: se il blitz di Conte fallisse e il Parlamento riconfermasse l’invio delle armi, il M5s potrebbe decidere di uscire dall’esecutivo, valutando l’appoggio esterno. Terzo scenario: Conte e Draghi trovano una mediazione su una risoluzione condivisa. Si chiamerebbe politica. Ma l’antipolitica è la sua negazione.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.