Meloni e Von der Leyen stringono patti al Cairo
Perché l’accordo con l’Egitto rischia di trasformarsi presto in un ricatto: le contraddizioni del baratto
Firme che malcelano la prassi di subappaltare a paesi terzi la gestione dei flussi migratori e dei rimpatri
Uno dei tanti meriti di “M. Gli ultimi giorni dell’Europa”, il mirabile romanzo storico di Antonio Scurati, è di elucidare la particolare stagione della politica estera fascista del “peso determinante”. Enunciato da Dino Grandi alla fine degli anni venti, il termine descriveva il poco onorevole barcamenarsi dell’Italia fra dittature e democrazie per assecondare gli umori della popolazione.
Specialmente su questa materia, è sempre opportuna la massima cautela nell’evocare corsi e ricorsi storici. Eppure c’è molto nell’operazione appena conclusasi al Cairo che richiama il metodo e il merito di quella esperienza. Giorgia Meloni e la Presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen, accompagnati da diversi primi ministri europei, hanno chiuso un accordo con il governo egiziano per un pacchetto di aiuti e prestiti di circa 7.4 miliardi di euro destinati a sostegno macro-finanziario e investimenti, in cambio del Sacro Graal di quella che oggi si chiama esternalizzazione delle frontiere. Un eufemismo che malcela la prassi di subappaltare a paesi terzi la gestione dei flussi migratori e dei rimpatri.
L’accordo com’è noto ricalca in larga parte quello di luglio dello scorso anno con la Tunisia. Meloni e Von der Leyen in quell’occasione si fecero accompagnare dal primo ministro olandese Rutte. Questo dimostra un’oggettiva influenza ed abilità della nostra Presidente del Consiglio nel mettere a fattore la sua agenda politica con il mainstream istituzionale europeo, ineludibile in un dossier complesso come le migrazioni.
Il precedente ben più significativo è però l’accordo fra Ue e Turchia del 2016, raggiunto nel momento critico della crisi innescata dalla guerra civile siriana. In quell’occasione, fu Angela Merkel a tirare la volata all’Europa sull’onda dell’apertura verso il milione e mezzo di migranti arrivati in Germania all’ascolto del suo “Wir schaffen das”, ce la faremo. Fu quello uno sforzo logistico e umanitario immane che vissi in prima persona a Berlino, dove per citare due esempi, un ex aeroporto dismesso nel cuore della città venne adibito a centro di accoglienza e dove l’università Humboldt nella quale insegnavo aprì intere nuove classi per consentire ai richiedenti asilo di proseguire gli studi.
Insito in questo parallelo, c’è evidentemente una profonda differenza. Mentre il “Wir schaffen das” tedesco era motivato dall’inclusione e dall’accoglienza, quello italiano è ispirato dall’esclusione e, all’evidenza, dallo scaricabarile. L’idea di affidare a paesi autocratici la gestione delle migrazioni era stata già fortemente criticata all’indomani dell’accordo con la Tunisia. Storie raccapriccianti di migranti appiedati, assetati e sfiniti rispediti dalle autorità tunisine nel deserto libico denotano preoccupanti abusi umanitari che difficilmente si riconciliano con l’ethos europeo.
Su un piano squisitamente politico, Meloni è riuscita ad imporre lo schema di Merkel da destra. L’Italia continua a far la spola fra Bruxelles e l’Ungheria di Orban con agilità ed efficienza, spostando il baricentro della politica europea. E von der Leyen (che l’esperienza del 2016 la visse da ministro della difesa tedesco) è in sintonia con la nostra premier, anche e soprattutto come preludio ad una possibile alleanza dopo le elezioni europee di giugno.
Ma la parabola della stessa Tunisia negli ultimi dieci anni dovrebbe servirci da monito. Doveva essere il fiore all’occhiello delle primavere arabe: paese piccolo, con una classe media significativa, forte tradizione burocrarica separata da quella militare, e senza quegli idrocarburi che sono dannazione in tanti paesi emergenti. Qui l’Europa poteva concretizzare la sua missione ed incoraggiare riforme. Ora è governata da Kais Saied, un satrapo che ha sciolto il parlamento, incita all’odio razziale e che l’Europa non ha piegato ma premiato.
In Egitto, un paese nove volte più grande, il passaggio dalla primavera all’inverno dell’autocrazia si è chiuso in un paio d’anni. Per mano di un generale, Al Sisi, che a distanza di quasi un decennio non si è ancora degnato di chiarire il coinvolgimento del suo regime nel terribile assassinio di Giulio Regeni.
Il baratto fra sostegno economico e controllo dei migranti rischia inoltre di transformarsi velocemente in ricatto. La Tunisia non si è fatta molti scrupoli nel rinnegare gli accordi della scorsa estate, rimandando al mittente perfino una delegazione di parlamentari europei in visita. Il Barometro Arabo pubblicato due settimane fa conferma, come è sempre stato nell’ultimo decennio, che l’influenza di Cina, Turchia, e perfino Russia è percepita come di gran lunga superiore a quella di europei e americani. Gheddafi vent’anni fa ci minacciava di aprire le frontiere e “far diventare l’Europa nera”; Erdogan in Turchia lo ha emulato nell’ultimo decennio. Non è difficile immaginare che alla prima timida richiesta europea di riforme politiche, Saied e Al Sisi facciano lo stesso.
Per storia e cultura, l’Italia ha sempre avuto una politica ambivalente ma inclusiva nel Mediterraneo. La sensazione oggi è di aver sostituito i termini di quell’equilibrio con l’illusione di un peso determinante posato su fondamenta valoriali e strategiche molto fragili.
© Riproduzione riservata