La sovraesposizione del potere giurisdizionale a cui assistiamo oggi è, soprattutto, l’esito dell’indebolimento della volontà politica, talché la giustizia si offre come luogo di esigibilità della democrazia di fronte al discredito delle istituzioni politiche e alla depressione dello spirito pubblico. E parlo chiaramente della giustizia nel suo complesso e non solo di quella parte iperprotagonista che in Italia è rappresentata dai Pubblici Ministeri (pur interni all’unico “ordine” dei magistrati) e che, per altro, altrove (es. tradizione anglo-sassone), non rientra pienamente nel puro potere giudiziario (esponendo la natura politica della funzione).

Il centro di gravità della democrazia si è spostato verso la giustizia: i suoi metodi, le sue argomentazioni, il suo vocabolario (trasparenza, motivazione, imparzialità, contraddittorio, ecc.) appaiono più credibili dell’esercizio della volontà politica. Tale tendenza ha accentuato un profilo a sua volta connaturato alla struttura ambivalente della democrazia costituzionale: la difesa dei diritti individuali e collettivi di cui i cittadini si sentono titolari al di là della loro soggettività politica attiva e che vogliono veder tutelati davanti a un’autorità imparziale.

Ma, si badi bene, altro è la tutela giurisdizionale dei diritti – funzione coessenziale alla democrazia costituzionale – altro è la sfiducia nella rappresentanza politica, che ha generato un atteggiamento di sorveglianza “giudiziaria” dei cittadini sull’operato dei loro rappresentanti.