Prima scoperta: la vittoria di Biden su Trump, come dire del bene sul male, non è affatto scontata e il primo ad ammetterlo è Joe Biden, il più vecchio candidato alla Casa Bianca della storia, che non ha un suo vero sex appeal perché il suo valore aggiunto è semmai la sua vice: Kamala Harris che si spaccia, senza esserlo, afroamericana. Biden dalla sua ha un unico merito davanti agli elettori che odiano Trump: di non essere Trump e di essere l’unica alternativa alla sua occupazione della Casa Bianca per altri quattro anni. Dalla banda degli amici dei miei figli adolescenti in Florida so che la Harris è detestata dai giovani perché, come giudice, ha massacrato proprio i ragazzi afroamericani spediti in galera per una canna. Ma è adorata da tutti i liberal del mondo i quali, essendo inconsapevolmente razzisti (misurano le loro simpatie regolandosi sul colore della pelle) si entusiasmano proprio e soltanto sul colore che ha la sua origine genetica, da un padre ex funzionario indiano nell’impero britannico e da una madre giamaicana: parenti discendenti degli schiavi, zero.

Vale la pena ricordare che nemmeno Barack Obama discende dagli schiavi americani, ma da un padre ex funzionario dell’impero britannico in Kenya dove risiede un fratello di Barack, Tony, che gli dà più o meno dell’impostore. Dunque, Kamala, non avrebbe i titoli per presentarsi con il tema identitario razziale. Invece, Kamala nei dibattiti dichiara per prima cosa di essere non una pericolosa donna di sinistra ma la madre di colore di un bambino nero. Di lei dà anche molto fastidio la serie di espressioni sprezzanti, sarcastiche e taglienti che di solito non piacciono agli americani e che infatti costituiscono uno dei punti deboli della personalità di Trump.

La strategia è evidente: se Biden va alla Casa Bianca è probabile che muoia e che lei diventi automaticamente presidente, la prima donna per di più di colore, magari per un secondo quadriennio e oltre, blindata dal potente clan degli Obama e dei Clinton che la sostengono. Ma purtroppo, non sembra avere neppure metà dello charme di Michelle, sua fervida sostenitrice. Proprio in queste settimane è uscito su Netflix un bel documentario – Becoming – sull’ex First Lady la quale ricorda con tristezza che nel 2016, al momento del voto “our people didn’t show up”, la nostra gente non si fece vedere ai seggi determinando allora l’inimmaginabile vittoria dei Donald Trump il quale oggi, secondo i sondaggi avrebbe conquistato il dieci per cento del voto femminile nero, che è considerato un risultato che quattro anni fa sarebbe stato impensabile. Se l’elettorato afroamericano legato ai democratici dovesse astenersi di nuovo nelle prossime ore, questo potrebbe essere un grande problema per i democratici, dal momento che nel frattempo è cresciuto un secondo elettorato nero che vota per Trump e che non ha gradito le insurrezioni e gli incendi perpetrati in nome del “Black lives matter”.

Quali sono dunque i motivi che oggi consigliano di non vendere la pelle dell’orso Trump prima di averlo ucciso? Proviamo ad elencarli: prima del Covid l’economia americana andava a gonfie vele e non si arricchivano soltanto i ricchi ma la classe media, gli agricoltori e il ceto medio-basso fatto di neri, latinos e immigrati di seconda generazione. Ciò è avvenuto certamente a causa di un drastico taglio delle tasse che ha spinto gli imprenditori a reinvestire nelle loro aziende, assumendo. Questa è la ragione per cui, fino al Covid, Trump poteva anche essere considerato l’uomo più odioso e odiato del mondo, ma portava ricchezza non solo ai ricchi, ma anche ai poveri. Se guardiamo, o ascoltiamo il programma del suo avversario Joe Biden, su questo punto, l’economia, non troviamo granché: Biden, che cerca disperatamente di non apparire troppo di sinistra, propone banalmente di far crescere le tasse soltanto per i super miliardari e di far crescere la sanità pubblica seguendo l’accidentato percorso inaugurato da Obama e mai arrivato in porto perché, piaccia o no a noi europei, gli americani hanno mostrato di non gradire una sanità pubblica uguale per tutti in cui lo Stato o il comune ti assegna il medico, perché neanche i poveri ne vogliono sapere: contrariamente a quel che si dice in Europa, gli americani più poveri, come i più ricchi, sono coperti dalle assicurazioni mentre chi soffre è il ceto medio che perde l’assicurazione insieme al posto di lavoro, in caso di crisi. E poi si arriva al Covid. Chi ha voglia può divertirsi a leggere l’ultimo libro di Bob Woodward (uno dei giornalisti più famosi del mondo che con il suo collega Carl Bernstein fece cadere il presidente Nixon per lo scandalo Watergate) intitolato Rage, rabbia, in cui è documentata la schizofrenia con cui Trump ha affrontato il Covid.

Woodward ha registrato – con il consenso di Trump – tutte le telefonate che il presidente gli faceva all’inizio dell’epidemia in questo 2020, e in cui Trump gli confidava di considerare il Covid un mostro, una malattia letale che non ha niente a che fare con un’influenza e che avrebbe fatto milioni di vittime nel mondo. Poi però il presidente si presentava in pubblico e diceva il contrario di ciò che aveva detto confidenzialmente a Bob. E cioè che il Covid è poco più d’un raffreddore. Bob Woodrow allora lo richiamava e gli chiedeva ragione di queste evidenti bugie Trump gli rispondeva: «Vedi Bob, non voglio mandare in panico gli americani altrimenti il panico manderà a picco il Paese».

Ma quando è uscito Rage con la trascrizione di tutte le conversazioni udibili anche su Internet, Trump ha risposto che sono tutte bugie e che Bob si era inventato tutto, con una sfacciataggine che oltre ad essere il suo limite, fa anche parte integrante del suo sex appeal politico. Ieri ha detto ai suoi elettori che non devono accettare alcun lockdown e non perdere soldi con chiusure assurde perché grazie al suo dinamismo sta per uscire il vaccino che salverà il mondo intero, frutto della sua magica determinazione. La gente vede le bugie e i trucchi di scena, ma lo ama anche per questo. Gli elettori di Trump sono pazzi di lui proprio perché ha una personalità debordante, perché si contraddice, perché ripete senza sosta che tutto è magnifico, “terrific”.

Uno dei più stimati studiosi di comportamento elettorale Jim Rickards, che nella Casa Bianca ha lavorato per più di trent’anni, è sicuro della sua vittoria: «Io dico che Trump non solo vince, ma stravince perché si sta verificando un fenomeno ben noto. Nessuno dice di votare per lui e anche fra gli iscritti per i democratici ci sono decine di migliaia di voti per Trump. Sono un numero enorme». Rickards dice che tutto il ceto medio americano ha imparato a non dichiarare mai apertamente di votare repubblicano per non incorrere nelle rappresaglie e nel bullismo a scuola, sui posti di lavoro e nella vita sociale davanti al barbecue. Ed è proprio Rickards a sostenere che il presidente ha conquistato il dieci per cento del voto femminile nero.

Quando qualcuno mi chiede se voterei io stesso per Trump, onestamente rispondo che come europeo e italiano mi sentirei più protetto da un’America interventista e schierata in Europa, nel Medio Oriente e sui Balcani, in grado di farci da mamma a spese del mitico tax payer, il contribuente americano. Dunque, forse avrei preferito Obama ieri e Biden oggi perché paradossalmente i democratici sono fautori della guerra fredda e del pugno di ferro in Europa, specialmente nei confronti dei russi. Ma da americano, non avrei dubbi come non ne hanno tutte le persone sane di mente, educate e colte che vivono in America e che fanno parte della mia famiglia e cerchia di amicizie. Votano Trump perché ha riportato a casa gli interessi americani impoveriti dalla delocalizzazione, specialmente in Cina. E, a proposito della Cina, in Italia e in genere in Europa pochi si rendono conto che in questo momento le flotte giapponese, vietnamita, australiana e americana stanno fronteggiando una flotta cinese di proporzioni mai conosciute con cui Pechino intende impossessarsi del braccio di mare in cui transita il commercio mondiale, in attesa di mangiarsi l’isola di Taiwan in un solo boccone, cosa che oggi potrebbe portare alla guerra totale. Trump ha ripristinato in quattro anni la forza militare e tecnologica americana che era stata largamente abbandonata dall’amministrazione democratica, e lo ha fatto con investimenti che hanno prodotto un fall-out industriale enorme.

Un altro impulso industriale e scientifico voluto da Trump è quello della corsa nello spazio, in cui la Cina è per ora in testa con una serie di satelliti militari nascosti dalla parte coperta della Luna, per arrivare su Marte entro venti anni, con un coinvolgimento già attivo delle industrie tecnologiche di tutto il mondo, americani in testa. I blue collar, le tute blu delle aziende metalmeccaniche e dell’automobile sono schierate con Trump che ha sbarrato la strada alla preponderanza e alla prepotenza tedesca che si fonda sull’enorme risparmio sulla spesa militare. In questo momento una brigata corazzata della Nato è schierata in Polonia per le annuali esercitazioni che servono per contenere le esuberanze russe in Ucraina e la Germania non è in grado di provvedere allo schieramento di poco meno di tremila uomini perché non ci sono. E perché i loro carri armati mancano di carburante e i militari tedeschi sembrano spesso degli hippy pacifisti. Così la Germania produce e consuma ricchezza, ma lo fa grazie al fatto che l’Europa è ancora protetta da un sistema di difesa pagato dagli Stati Uniti e non ne vuole sapere di spendere neppure il due per cento del suo Pil come scritto sulle carte dell’alleanza atlantica.

L’America di Trump sente il peso dell’Europa e punta a recuperare come un suo Stato esterno il Regno Unito insieme agli altri componenti dei “Five Eyes” ovvero la comunità dei popoli di lingua inglese che includono Canada, Australia e Nuova Zelanda, oltre il governo indiano che ancora tentenna fra cinesi e russi. L’Europa insomma, vista da Washington costa troppo, è egoista, ha più abitanti e ricchezze degli Stati Uniti ma non vuole pagare l’affitto, vuole invece solo spendere nei servizi sociali, cosa che ingolosisce la Cina, che ha già provveduto a occupare quasi tutta l’Africa con le sue aziende coloniali. Lo scenario è molto complicato e visto dall’Italia quasi sconosciuto e certamente remoto. Ma è su questo scenario che si combatterà fino all’ultimo voto fra poche ore nella più antica democrazia repubblicana del mondo.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.