Questa non è Ibiza
Il racconto di Guido Trombetti
Procida, l’isola che resiste capace di accendere immaginari, storie e nostalgie. Qui il turismo chiassoso viene respinto

Nel nostro piccolo viaggio tra le isole del Golfo, cominciamo da Procida. L’isola che per molti è un luogo dell’anima, prima ancora che una meta geografica. Piccola, ruvida, silenziosa, ma capace di accendere immaginari, storie e nostalgie. A raccontarcela è Guido Trombetti – matematico, scrittore e voce raffinata del mondo accademico e culturale partenopeo – che con Procida ha un legame profondo, fatto di ricordi, incontri e riflessioni. Una chiacchierata che è anche un modo per capire se quella magia che tutti sentono, quando ci mettono piede, è ancora viva.
Professore, si dice che Procida sia l’isola meno addomesticata, quella che ha conservato un’anima più autentica. Lei ritrova ancora questa identità nel presente dell’isola?
«Assolutamente sì. Procida è un’isola che respinge il turismo chiassoso. È un luogo tranquillo, sereno. I procidani non amano il turista che viene per portarsi a casa un trofeo, non sono mai stati attratti dalla dimensione spettacolare del turismo. Non ho mai visto nemmeno uno schiaffo in venticinque anni, è un luogo che conserva un’armonia rara. La Corricella, con i suoi colori pastello, è un villaggio di pescatori tra i meglio conservati del Mediterraneo. È una comunità che non ha ceduto al richiamo del rumore».
Ricorda la sua prima visita a Procida? Cosa la colpì, al di là del paesaggio?
«Me la ricordo benissimo. Mi ci portò un amico, presi in affitto una casa nella parte alta. La sensazione fu quella di un luogo a misura d’uomo. Ci si muove a piedi, i pullman sono puntuali – e per un napoletano è quasi un mito. I ristorantini sono sempre gli stessi, e questo ti fa sentire parte di qualcosa. Non è una vacanza “da raccontare” al ritorno, ma è il piacere delle cose semplici, di piccoli circoli di amici, cene a casa. È un altro modo di intendere l’estate».
Nel tempo Procida ha ispirato pittori, registi e scrittori. Cosa crede la renda così fertile dal punto di vista simbolico e narrativo?
«Non solo le bellezze naturali, ma soprattutto il carattere degli abitanti. C’è una fenomenologia particolare dei procidani: chiusi, scontrosi, spesso ex marinai. Hanno un rapporto con il mare non romantico, ma professionale, da luogo di lavoro. È gente abituata a partire e tornare. Questa cultura identitaria è ciò che ispira davvero chi scrive».
C’è un luogo dell’isola che per lei è particolarmente evocativo?
«La Chiaiolella. È un piccolo porticciolo dove si affaccia anche il ristorante di Crescenzo, una vera istituzione. La sera, passeggiando lì, si avverte un’armonia rara: la gente cena in silenzio, non c’è inquinamento acustico. È più emblematica della stessa Corricella».
Se dovesse creare una piccola galleria di «personaggi procidani» memorabili, chi inserirebbe?
«Vittorio Silvestrini, il fondatore di Città della Scienza. Era un combattente, un fisico brillante, aveva casa lì. Poi Giovannino, suo allievo, insegnante di fisica e procidano doc: in bicicletta è la perfetta reclame dell’isola. Infine Alfonso, il titolare del Lido Vivara. Un ex medico, uomo intelligentissimo, con cui ogni mattina facevamo “le quattro chiacchiere”. Quelle vere, senza pose. Questo per me è Procida».
C’è qualcosa che Napoli dovrebbe imparare da Procida? E viceversa?
«Napoli dovrebbe custodire meglio il proprio genius loci. A Procida si sente ovunque. Dall’altra parte, Procida potrebbe imparare l’inclusività di Napoli: lì bastano tre giorni al mercato per sentirti parte della comunità. A Procida questo accade meno, i procidani sono più chiusi. Un pizzico di empatia in più non guasterebbe».
Un angolo dell’isola dove «perdersi» in estate?
«L’isola è piccola, e gli angoli sono noti. Ma perdersi non significa andare lontano: significa sentirsi parte di una comunità. Anche Piazza Olmo, senza mare, ha quella funzione. E poi i lidi della Chiaiolella: tutti semplici, mai di lusso, ma confortevoli. Si sta bene».
Lei ha una scrittura che mescola rigore accademico e calore umano. Come cambia il suo sguardo su Procida da scrittore rispetto a quello da cittadino?
«Da scrittore, cerco di estrarre la linfa del luogo e portarla sulla pagina, ma resta sempre qualcosa di artificiale. Da cittadino procidano, acquisito e affettivo, mi sento a casa. Dovunque volga lo sguardo, vedo volti amici. E questa sensazione è impagabile».
E la famosa lingua al limone? È davvero così buona o è una trovata turistica?
«È buonissima. La trovi ovunque, e proprio perché se ne consuma tanta è sempre fresca. Non è una moda recente: esiste da sempre. C’è chi ne contende la paternità – il Bar Roma o il Cavaliere – ma resta un’icona golosa. Non dietetica, certo. Ma vale la pena».
© Riproduzione riservata