“Quando si entra in un istituto, perdere la tua dignità avviene immediatamente, eliminata con dei procedimenti medioevali e da torture psicologiche e fisiche”. Sono queste parole di F., che racconta quello che gli è successo quando è entrato in carcere. F. racconta come una persona smetta di essere un uomo e diventa matricola, numero. F. ripercorre come, appena varcata la soglia del carcere, lui abbia perso completamente la dignità, diventando una “marionetta”, “nudo come un bambino appena nato, come un verme”, impaurito e inerme. E paradossalmente l’unica cosa che gli viene da dire mentre viene spogliato di tutto, compreso della sua anima, è “grazie”. Dopo quegli interminabili momenti di terrore, quando ormai è rimasto solo, sente finalmente una voce amica, un altro detenuto che dalla cella accanto gli dice: “Ti ho fatto un caffè, poi più tardi cucino, ti faccio la pasta”. Anche lui come F. aveva subito quella sorta di rito con cui un uomo perde la sua dignità. Riportiamo di seguito la sua lettera a Sbarre di Zucchero.

Eh si la dignità, ciò che un essere umano ha per se stesso. La dignità non si può condividere, si può spiegare, si può mostrare, però non si può vendere o dare. Però quando si entra in un istituto perdere la tua dignità avviene immediatamente, eliminata con dei procedimenti medioevali e da torture psicologiche e fisiche. Quando arrivi in un istituto passi per un ufficio matricola dove apparentemente loro sanno di te, il perché sei lì, e ovviamente dopo la decima volta che ti prendono le impronte, parlano fra di loro chiamandoti “il pacco”. Arrivi in un’ altra stanza che si chiama “Casellario” e lì uno capisce che la sua vita, la sua dignità è pari a meno zero. Manca solo un camino ardente in bianco e nero utilizzato nel 1940.

“Spogliati! Dammi tutto quello che hai! Soldi, anelli, vestiti, catenina,…”. “Già sono le 18”, dice l’altro. Tu sei lì, perso a guardare a cercare di capire che cosa vogliono da te. Però niente, continuano. “Ahhh ma questi sono 1000 euro, allora sei ricco! Vedrai qua dentro. Togliti le mutande”, e li le guardi come se la tua vita stesse per finire. “SPOGLIATI HO DETTO!”, grida uno. E tu pensi “ma chi è sta gente che ti grida addosso”, ma niente. Alla fine ti spogli, ma spogliandoti poco a poco ti senti morire dentro umiliato e finito, la tua dignità sta scomparendo poco a poco, per ogni cosa ogni vestito che ti levi, ogni tua cosa personale. Poi quando sei lì nudo come un bambino appena nato, nudo come un verme, non hai più forze ne per parlare per ribellarti, una voce arriva dritta al cuore: “METTITI A NOVANTA GRADI CHE DOBBIAMO VEDERE SE NASCONDI QUALCOSA”.

Non hai neanche più la forza di dire qualcosa, ti senti stuprato, violentato, ti senti zero e anche meno di zero. Poi un tipo viene e guarda. Cosa guarda? La tua dignità. Ti dice: “GIRATI FAI DELLE FLESSIONI, ANZI NO, FANNE 3, POI ALZA TUTTO CHE DOBBIAMO VERDERE, GIRATI RIMETTITI A NOVANTA GRADI”. E tu come una marionetta senza anima lo fai perché non sei più chi eri mezz’ora ora prima. Poi ti dicono: “ADESSO VESTITI, SEI QUASI FELICE PERÒ”. Una voce dice: “Ma quello adesso dove lo mettiamo?”. E li ti senti come se il mondo che conoscevi non c’è più, cerchi di pensare ai figli, a tua moglie, a tua a madre, tuo padre, agli amici. Ma niente. Il tuo cervello si è chiuso, non hai neanche più il minimo istinto preistorico. 

Poi un’altra voce. E lì inizi a sudare freddo, a pensare di tutto, a tutto quello che ti possono fare ancora. Però era solo per dirti: “Queste sono le tue scarpe senza lacci. Questa è la tua felpa senza il cappuccio. La tua cinta la teniamo noi”. E tu gli dici ok, e anche grazie! Non so perché gli ho detto grazie. Si vede che ancora dentro di me c’era qualche istinto di galateo. Poi ti portano in una stanza. Sono solo, guardo intorno vedo un letto di ferro con un materasso di gomma con un cucino dello stesso materiale, una sedia un tavolo di legno dove puoi leggere messaggi di altri come me passati in questa stanza.

Finalmente sono solo, cerco di iniziare a capire dove sono, cosa sono, cosa succederà. Ancora però poco a poco cerchi di ridarti la fiducia in te. Inizi a fare il letto. Piangi, ti stendi. Pensi, pensi e piangi. E ripiangi. Poi una voce dalla stanza accanto: “Ciao fratello chi sei? Di dove sei? Perché sei qui? Ti ho fatto un caffè, poi più tardi cucino, ti faccio la pasta”. Una voce amica, una voce che ha passato lo stesso che ho passato io, una voce che non cerca di spogliarmi ma di darmi conforto. Eh si questa voce mi ha abilitato al carcere. Il mio inizio, la mia entrata.

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