Aldo Tortorella, come tanti altri, non ha dubbi. Voterà No nel referendum del ‘’taglione’’. Infatti, ‘’il politico del secolo scorso’’ ha dichiarato al Riformista che, a suo avviso, lo scopo di quell’operazione politica è rivolto al «rafforzamento della tendenza antiparlamentare ampiamente sostenuta non solo dai partiti cosiddetti “populisti”, ma da un pesante ritorno a sollecitazioni autoritarie che si giovano dei troppi errori e delle troppe manchevolezze o colpe di una rappresentanza politica fattasi ceto separato». «L’attacco – ha proseguito l’anziano ‘’berlingueriano’’ come ha voluto definire sé stesso – è «al ruolo centrale del parlamento, cioè alla funzione costitutiva di ogni liberaldemocrazia e ancor più nella definizione datane nella Costituzione italiana». Parole pesanti, ma il lettore non troverà nell’intervista critiche e attacchi personali ai riformisti per il Sì che sembrano ormai sull’orlo di una crisi di nervi.

Infatti, non sono i ‘’grillini’’ a fare campagna elettorale per strappare un voto favorevole alla legge costituzionale sottoposta a referendum. Sono tanto sicuri di vincere da lasciar fare agli ‘’spiriti animali’’ del popolo sovrano, senza correre il rischio (che credono remoto) di metterci la faccia e di cucirsi addosso – come fece a suo tempo Matteo Renzi, nella consultazione, sulla legge Boschi del 2016, – l’insuccesso. I critici più accaniti di coloro che hanno deciso di votare No, sono gli antipopulisti che invitano, invece, a votare a favore della conferma della legge, perché, secondo loro non si deve «regalare ai populisti una battaglia per l’efficienza del Parlamento che tutto è tranne che populista». Il “grido di battaglia’’ è stato lanciato e ribadito da Claudio Cerasa su Il Foglio, il quale, nell’editoriale di lunedì ha elencato, con toni inutilmente polemici, quelli che a suo parere costituiscono errori tragici, quasi un appoggio inconsapevole ai populisti. Scrive, infatti, Cerasa (una persona che stimo ed apprezzo, direttore di un quotidiano che leggo tutti i giorni) che è sempre più evidente una «carrellata di scene tipiche di nuova e involontaria comicità politica». Quelli che il direttore definisce “puristi dell’antipopulismo” si ritroverebbero «a combattere a fianco di una truppa niente male di populisti».

Certo, quando ci si impegna in un referendum gli schieramenti sono sempre compositi. Ma questo vale anche per i sostenitori del Sì, a meno che non credono di poter cambiare – con la loro presenza e le loro idee – un voto di cultura plebea. Se vinceranno i Sì rivedremo di nuovo le piazzate con esposizione di striscioni, i brindisi dal balcone e quant’altro, per di più potendo avvalersi del credito che tante persone perbene hanno voluto garantire a dei “saltafossi”. Noi del No suoneremo le trombe di Borghi e Bagnai. Ma quelli del Sì dovranno suonare le campane di Matteo Salvini. Come disse Socrate nella sua arringa difensiva: «Chi di noi si volga a miglior destino è a tutti ignoto, tranne che al dio». Insomma, il gioco si è fatto duro. I sostenitori del No sono stati definiti “anime belle”, legulei pedanti come il dottor Balanzone, politici del secolo scorso, schizzinosi che non vogliono “sporcarsi le mani”, come dovrebbero fare i veri riformisti.

Ma dove sta il beef? I riformisti dalle “mani sporche” erano in generale convinti sostenitori della legge Renzi-Boschi, soprattutto per un motivo (tuttora prioritario): il superamento del bicameralismo con l’istituzione del Senato delle Autonomie. Così rimproverano di aver perso l’occasione della vita, coloro che erano contrari alla “grande riforma” – ed hanno contribuito ad impedire il voto confermativo. Ma, di grazia, se la “madre di tutte le riforme” consiste nel trasformare il Senato in un inutile orpello o persino di abolirlo, non si può negare che la legge sottoposta a verifica non si sia posta la questione che sta tanto a cuore agli irriducibili del 4 dicembre. Anzi come ha scritto Carlo Fusaro in un lungo articolo su Il Foglio dove critica ”l’ipocrisia del No” «il nuovo assetto eliminerebbe i “residui” elementi di differenziazione fra due Camere gemelle», in conseguenza dell’unificazione dei requisiti anagrafici dell’elettorato. Si arriverebbe in sostanza «ad una sorta di bicameralismo assoluto cioè ad un Parlamento composto da due Camere del tutto identiche».

C’è poi un altro aspetto da considerare. I difensori della legge del “taglione”, si turano il naso ma giustamente si augurano – soprattutto il Pd- che il governo giallorosso – nato opportunamente per non regalare l’Italia a Salvini – vada avanti il più possibile, almeno fino alle elezioni del nuovo Capo dello Stato. Ma potrebbe un Parlamento delegittimato, in attesa della decimazione, restare in carica almeno fino al semestre bianco? Le pressioni per uno scioglimento anticipato diventerebbero fortissime e i pentastellati si ridurrebbero ad imitare lo scorpione che punge ed uccide la rana – sul dorso della quale attraversa il fiume – soltanto per ubbidire a un istinto naturale. Sarebbero i primi ad essere privati delle poltrone “dell’hic manebimus optime”. I riformisti del Sì sono divenuti anche efficientisti. Un minor numero di parlamentari secondo loro favorirebbe l’attività legislativa (Luciano Violante li ha smentiti, almeno per quanto riguarda il Senato).

Peccato, però, che nella legge Renzi-Boschi questa esigenza non fosse stata avvertita con tanta intensità. I deputati (nell’unica Camera con pienezza di poteri) 635 erano e tali sarebbero rimasti. Ma le argomentazioni che più mi hanno sorpreso solo quelle di Carlo Fusaro che, sempre su Il Foglio, ponendosi la domanda su quale sarebbe l’utilità della riforma, risponde così: «È legittimo sperare che un Parlamento di questo genere, costruito a ben vedere solo ed esclusivamente per rallentare i processi decisionali e indebolire il rapporto governo-Parlamento, finirà col risultare in tutta evidenza, rilanciando il tema delle riforme politico-istituzionali, quelle davvero incisive». Nel frattempo emergerà, secondo lo stesso Fusaro, «l’assurdità e la strutturale inefficienza di un Parlamento di questo genere». Proviamo a riassumere il concetto: il Paese deve farsi ancora più male per decidere di curarsi. La solita logica – per nulla riformista – del “tanto peggio, tanto meglio”. Se questo è l’obiettivo dei militanti del Sì, se ne assumano pure tutta la responsabilità. Noi del No manteniamo le mani pulite.