Undici maggio 2019. Gianni De Michelis moriva nella sua Venezia, lasciando sconsolati il ristretto collo di bottiglia di amici più leali con i quali divise la buona e la cattiva sorte. De Michelis sapeva leggere il futuro da fine analista, meglio di tanti futurologi che lo fanno di mestiere. Dal suo punto di vista, l’importanza stava nel come utilizzare le tante occasioni di cambiamento. Pertanto osservava, ascoltava e dava rilievo alle trasformazioni. Per lui, non era necessario “esplorare lo spazio, bensì il tempo”. Per questo si considerava un “argonauta alla ricerca del vello d’oro”. Però non riusciva a vedere all’orizzonte la nave e l’equipaggio con cui intraprendere questo viaggio nel tempo.

Figlio di una precisa epoca storica, la cui formazione si svolse tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, nel periodo del boom economico e del centrosinistra che determinò, in Italia, una svolta riformista a livello politico, economico, sociale, culturale e civile, insomma antropologico, confessò che “come altri della mia generazione ero convinto, in un misto di utopia e ideologia, che il problema fosse utilizzare la chance offerta dallo sviluppo e dalla tecnologia per attuare grandi disegni globali e per rilanciare l’impegno politico e sociale”. Per palar spiccio crebbe, come la sua generazione, quella impegnata nelle organizzazioni universitarie (in particolare nell’UGI, l’Unione goliardica italiana di cui fu presidente) e nei movimenti giovanili, a pane e politica.

E oggi ci mancano le sue anticipazioni geopolitiche. Vide anzitempo il crollo del comunismo e individuò il Pacifico come nuovo baricentro del mondo conteso da Usa e Cina. Credeva alla via danubiana con Venezia e il Nordest al centro di questa e alla centralità del Mediterraneo da cui transita il 20% delle merci mondiali. Al “Mare Nostrum” dava una chiave di lettura inedita, a ben vedere, foriera di sventure, in particolare per l’Italia, visto che non è stato realizzato “un Mediterraneo in cui prevarranno la cooperazione e la convergenza”. Mentre ha preso l’abbrivio “un Mediterraneo in cui sarà inevitabile il conflitto, che avrà al centro la zona euromediterranea”. Senza alcuna ombra di dubbio è avvenuto ciò.

Convinto europeista, firmatario del trattato di Maastricht, prefigurava una visione diversa con una Europa a forte proiezione mediterranea che avesse alle sue fondamenta la risoluzione del conflitto arabo-israeliano e con il coinvolgimento del Nordest e del Sud dell’Italia sempreché svolgessero una funzione nell’interesse dell’intera Ue. Auspicava un Mezzogiorno “responsabilizzato, autonomo e propulsivo, protagonista della scena mediterranea in cui si affaccia l’unica economia ancora non emersa, ma potenzialmente emergente”. A suo parere occorreva, insomma, un salto di paradigma, una strategia e un riposizionamento della politica. Delineando una visione di società che non avrebbe potuto prescindere da tre aspetti: l’invecchiamento della popolazione, il fenomeno migratorio e la “bio politica” investita da tutti i problemi della vita del singolo e della moltitudine. Gianni guardava con grande attenzione al diffondersi della cultura italiana nei Paesi che sono luogo di origine dei flussi migratori e laddove ci potrebbero essere opportunità di sviluppo delle nostre relazioni economiche e commerciali, sperando nella creazione di “ordinati mercati del lavoro transnazionali frutto di accordi bilaterali con queste realtà”.

Politicamente parlando, considerava la democrazia italiana bloccata, anomala, senza alcuna alternanza, per via di Yalta che aveva diviso il mondo in due blocchi, quello occidentale e quello sovietico, “alleati nella spartizione politica del potere”. A suo avviso, in Italia si era instaurato “un regime di extraterritorialità” a favore degli Stati Uniti, finanziatori della Dc, e dell’Unione Sovietica, finanziatore del Pci. La cui sorte era segnata: non sarebbe mai potuto andare al governo. Chiaramente, GDM vide questa situazione come uno “scontro politico che si è svolto in parte sopra il tavolo, in parte sotto il tavolo. E tra le cose gestite sotto il tavolo c’è stato anche e soprattutto il finanziamento della politica”. “La logica di Yalta – affermava – ha prodotto fenomeni cultural-politici sui generis come il ‘cattocomunismo’, che rappresenta una certa visione ideologica tesa a individuare gli elementi comuni tra la dottrina sociale della Chiesa nella sua traduzione concreta e la dottrina sociale del marxismo”.

Con il crollo del comunismo e, nello stesso tempo, con la fine della Guerra fredda, era saltato il patto non scritto tra i partiti italiani, accordo che aveva tenuto unita la democrazia repubblicana. In più, con l’ingresso a Maastricht, la politica italiana avrebbe dovuto cambiare pelle. In effetti cambiò, con l’entrata in campo di Tangentopoli e l’azione del pool Mani pulite che portò alla fine della Prima repubblica, con un’aberrante gestione della giustizia. Quasi sempre, ripeteva GDM, “senza il rispetto della legge. Conosciamo perciò una storia parziale, distorta, lungo la quale si snoda una scia impressionante di provvedimenti giudiziari, smentiti dall’assoluzione di decine e decine di imprenditori, politici, parlamentari, esponenti di governo, risucchiati in un vortice giustizialista senza precedenti”.

Personalmente, la prima volta che sentii parlare di appalti e politica in Sicilia fu in alcuni colloqui vis a vis con Gianni. Della Sicilia sapeva tutto e, lui veneziano, l’amava. Anche nelle riunioni di partito parlava liberamente dell’affaire “appalti e politica” e dei personaggi noti e meno noti: da Sindona a Cuccia, a Guarrasi, a Verzotto, ai Salvo. Curiosissimo, scrisse il testo Dove andiamo a ballare questa sera? Guida a 250 discoteche italiane. Un libro cult. Ai suoi tempi, la discoteca era simile a una industria, produceva profitti e dava occupazione. Ed è vero che gli piaceva ballare e di evadere dopo giornate faticose trascorse al ministero e nelle lunghe riunioni di partito. Sotto questo aspetto era uno stakanovista. La discoteca era altresì il luogo per conoscere e capire i giovani e lui ripeteva che “ormai sono, dopo la famiglia e la scuola, il più importante luogo di socializzazione per le nuove generazioni”. Non a caso, nel suo staff politico e governativo vi erano giovani che hanno fatto carriera politica, assumendo incarichi di governo e manageriali in diversi settori pubblici e privati.

GDM era un laico, seppure di religione valdese. Un anticonformista che sfiorava l’eccesso, non curante dell’opinione della gente per come si divertiva, dove passava le vacanze e in quali locali notturni andava. “La classe dirigente della prima Repubblica – scrive Filippo Facci nel suo libro ‘La guerra dei trent’anni’ – aveva commesso una serie di reati, è vero, ma era di un altro livello. Un politico come Gianni De Michelis ha pagato molto più caro il fatto che andasse a ballare in discoteca con i capelli lunghi piuttosto che violasse la legge sul finanziamento della politica”. Negli indimenticabili anni Ottanta l’Italia aveva vissuto un nuovo boom economico, aveva superato il Pil della Gran Bretagna e aveva fatto il suo ingresso nel G7. GDM è stato uno dei protagonisti di quel decennio. E, tra i tanti pregi e difetti che aveva, come ognuno di noi, era uno che leggeva il futuro.