Gianni De Michelis era un personaggio fuori dall’ordinario, vedeva di là dall’orizzonte. Era un presbite politico e non si perdeva in tattiche, come comunemente fanno i politici di basso lignaggio. Il suo rapporto con la politica era pragmatico, dovuto alla sua docenza in chimica, ma tutto condito dall’utopismo e dal riformismo. Insomma, era un personaggio sui generis e per la sua formazione culturale e religiosa era portato ad essere eretico e, per di più, aveva una grande velocità di pensiero. Per questo, le sue analisi erano scenari. Dopo alcuni travagli giovanili a destra, si iscrisse al Psi, seguì l’operaismo di Lelio Basso, scelse il riformismo rivoluzionario di Riccardo Lombardi non facendo la scissione del Psiup, in seguito, fu un post-craxiano. A un anno dalla sua scomparsa, sentiamo la sua mancanza umana e politica.

Anzitempo, nel 1987, diede alle stampe il libro: Verso il XXI secolo. Idee per fare politica. Un lungo saggio per arrivare attrezzati e preparati al nuovo secolo. A parere dell’autore il problema era come utilizzare l’occasione di cambiamento: dopo decenni di impegno politico, aveva scoperto la necessità di «osservare, ascoltare e dare testimonianza della trasformazione». Al che, si pose la domanda: vale più la pena di esplorare “lo spazio” o il “tempo”? Il ragionamento fu che alla storia spettava la riflessione sul passato, ma, nel XXI secolo, «la velocità della trasformazione consente di esplorare il tempo testimoniando dell’attuale e vivendo in esso».

Per i tempi nuovi, necessitano uomini nuovi e De Michelis, rifacendosi, alla mitologia greca, ossia a quel gruppo di circa cinquanta eroi, guidati da Giasone che, a bordo della nave Argo, li condusse nelle terre ostili della Colchide alla riconquista del “Vello d’oro” – descriveva questa grandissima trasformazione. Ma qual è la nave e l’equipaggio con cui si esplora il tempo? Beninteso, non si ispirò alla leggenda, ma andò oltre e come un rabdomante “scoprì” il Faust di Goethe, opera scritta a cavallo della Rivoluzione francese e l’inizio del XXI secolo, in cui il grande letterato tedesco esprime, da par suo, il sorgere dell’era nuova, ossia il mondo industriale, la società delle ciminiere e del manifatturiero. In questo contesto, si muove la figura di Faust che non è altro l’uomo nuovo che rappresenta i due secoli.

Il politico veneziano, che per carattere e formazione non mancava di peccare di ottimismo, auspicava che ci fosse una personalità che, tra il XX e il XXI secolo, potesse «scrivere un’opera analoga in un mondo che sarà riuscito a controllare il proprio destino e che possa salutare l’alba della nuova epoca. Ma allora il protagonista non sarà Faust ma Fausta». Già allora, si pose il problema della nuova classe dirigente, delle trasformazioni e del ruolo della donna. “Fausta” protagonista del futuro, «perché se è vero, com’è vero, che abbiamo poco tempo, se è vero, com’è vero, che la partita viene giocata in tempi brevi, se è vero, com’è vero, che le risposte tradizionali, politiche, ideologiche, organizzative, si dimostrano visibilmente inadeguate a quell’operazione di governo e di autogoverno, allora occorre che ci sia la capacità di sostituzione, e questo è compito soprattutto della donna». Pur tuttavia, la donna, che con le proprie forze, capacità, intelligenza e cultura, ha scalato gerarchicamente posti importanti del potere e delle istituzioni, a ben vedere, resta ancora ai margini. Molto lavoro c’è da fare per far sì che si inserisca a pieno titolo nel mondo che conta. De Michelis pensava che sarebbe stato il XXI secolo il riscatto della donna, invece, in particolare in Italia, vediamo nei posti di comando ancora un’egemonica presenza dell’uomo.

Alla luce degli accadimenti di oggi, non c’è un domani, dato che si naviga a vista. In particolare in tempi di Covid19, ci vorrebbe una programmazione, un progetto e delle idee. E, comunque, mancano i politici della sua razza che sapevano vedere in lontananza, al contrario, di quelli attuali che hanno gli occhi per vedere e non vedono. In verità, sono degli apprendisti stregoni, non a misura di questo periodo malvagio. Comunque sia, dopo mesi di pandemia, i governanti non hanno proferito verbo sul futuro dell’Italia. Il solitario riformista aveva toccato con mano che, facendo il giramondo come privato e come ministro, si era «avviato, su scala planetaria, un processo di cambiamento le cui principali caratteristiche – velocità, pervasività, globalità – sono totalmente diverse da quelle dei processi di cambiamento che hanno caratterizzato la precedente fase della storia dell’umanità».

Non a caso, vide primo fra tutti il fenomeno di massa della migrazione. L’allora ministro del Lavoro, parliamo del lontano 1985, ebbe, tra le tante sue intuizioni quella della grande migrazione: dal Sud sottosviluppato del mondo verso il Nord sviluppato, Europa in primis. Purtroppo, le sue argomentazioni furono inascoltate dai capi di Stato e di governo e oggi paghiamo il fio, con sbarchi di extracomunitari alla ricerca di una vita degna di questo nome. Con buona pace di coloro i quali non hanno fatto una politica accorta sull’accoglienza nei confronti degli africani e degli asiatici che sbarcano sul suolo italiano: oggi si meritano un partito come la Lega che sta sulla cresta dell’onda elettorale.

Cosa fece e cosa disse De Michelis in proposito? Riunì a Tunisi i ministri del Lavoro e affermò che «arriveranno sulle nostre coste a nuoto e nessuno potrà fermarli». Nella conferenza dell’Ocse di Roma del 1991 predisse che «l’immigrazione sarà un problema pari alla questione ambientale» e come ministro degli Esteri aumentò i finanziamenti alla Cooperazione economica verso i Paesi poveri. Altra intuizione fu la Cina: in veste di “argonauta” mise piede il giorno dopo che avevano arrestato la moglie di Mao Zedong, Jiang Quing, e capì in un battibaleno che Deng Xiaoping avrebbe cambiato le sorti del Paese. Di fatto, sotto il suo controllo la Cina divenne una delle economie dalla crescita più rapida, immettendola nel mercato globale, senza che il Partito comunista cinese perdesse il controllo del potere. Tra parentesi: stando al suo fianco, fui sorpreso che le autorità cinesi chiedessero come stesse il compagno Pietro Nenni, che per loro era una icona, una sorta di immagine sacra.

Amò la Cina, come discente di Marco Polo, ma fu convinto assertore della politica Atlantica, della Nato e dell’Ue: c’è in calce, agli atti, la sua firma al Trattato di Maastricht. Sebbene, negli ultimi anni della sua vita, fosse critico per la piega che aveva preso Bruxelles. Consapevole dell’importanza del negoziato di Maastricht, si schierò con Craxi contro le elezioni anticipate: secondo lui se si fosse votato nel 1991, l’Italia sarebbe uscita dal negoziato. Sulla scelta del non andare alle urne di Craxi e De Michelis, personalmente dissento e come Psi abbiamo perso una occasione storica, partono da lì le nostre successive sventure. Sul rapporto Stato e l’attività scientifica, GDM aveva le sue idee in proposito. Nonostante attribuisse alla scienza una centralità e un peso notevole, le ultime decisioni non potevano spettare agli addetti ai lavori. Al dunque, pensava, «la politica detta le regole del gioco».