Una buona sintesi del voto europeo l’ha fatta un nemico dell’Europa, il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov: «I risultati delle elezioni Ue mostrano che la maggioranza nel Parlamento rimarrà pro-europea e pro-ucraina, ma i partiti di destra stanno incalzando le forze pro-europee». Con il voto di sabato e domenica l’Europa infatti non è diventato un continente nazi-fascista e come tale filorusso perché resta saldamente nelle mani delle tre grandi forze democratiche – popolari, socialisti e liberali – che esprimeranno il/ la presidente della Commissione sia pure dopo un prevedibilmente faticoso iter negoziale.

La maggioranza uscente dell’Europarlamento ha perso qualche numero ma si conferma tale: servono 361 voti, la cosiddetta “maggioranza Ursula”, appunto popolari socialisti liberali, ne conta 400, se allargata ai Verdi 453, sicché non si vede perché sia necessario cercare i voti dei Conservatori di Giorgia Meloni. L’autorevole esponente di Renew Europe, Valérie Hayer, lo ha detto chiaramente: «Manteniamo la nostra posizione: nessun accordo con i Conservatori di Giorgia Meloni, del PiS in Polonia e di Reconquete in Francia. È l’estrema destra, e noi vogliamo preservare il cordone sanitario anche nel contesto del nuovo Parlamento europeo».

La fedeltà atlantica del prossimo parlamento di Bruxelles dunque è salda. Non perdiamo la testa, cari commentatori: non c’è il fascismo, questo è il primo dato. E tuttavia certo l’onda nera seppure senza riuscire sommergere il Vecchio continente tuttavia si è aperta una strada tra i flutti di un europeismo che dà risposte al di sotto delle domande di sicurezza e lavoro di vasti strati delle nazioni europee ed è malvissuto dai milioni di elettori che sono rimasti a casa o appunto hanno votato per formazioni anti-europee. L’immigrazione in Germania, Francia, Belgio, Olanda è un problema specie se incrocia un islamismo di tipo violento, tutta legna nella cascina della destra. O il lavoro, i bassi salario. E tuttavia in questi anni Bruxelles è stata sinonimo di lotta alla pandemia, di Recovery fund. Questo ha pesato. Il pericolo è scampato ma le schegge infuocate del sovranismo di estrema destra hanno sbriciolato il Parlamento francese e corroso la credibilità di quello tedesco.

Per un paradosso della storia Parigi e Berlino che si sono sbranate nella Prima e nella Seconda guerra mondiale e poi riafratellate da ottant’anni in qua si trovano entrambe colpite al cuore dai fantasmi del fascismo e addirittura del nazismo. L’asse europeista franco-tedesco si sveglia tarlato: Emmanuel Macron ha accettato “le pari”, la sfida, come ha titolato Libèration, indicendo nuove elezioni (30 giugno il primo turno, 7 luglio il secondo): «Affinché il presidente riacquistasse il suo margine di manovra, non c’era altra scelta che rivolgersi al popolo», ha spiegato uno dei suoi consiglieri. È una scommessa che qualcuno giudica da giocatore di poker e altri da finissimo machiavellico quella di far rivivere il “mito repubblicano”, in questo caso la grande alleanza democratica e antifascista anti-Le Pen, che è fondativo della V Repubblica.

Il doppio turno potrebbe offrire una chance ad uno schieramento che in teoria ai ballottaggi dovrebbe andare dall’ammaccato estremista di sinistra Jean-Luc Mélenchon fino ai Républicaines passando per i redivivi socialisti di Raphäel Glucksmann e naturalmente monsieur le Président. Ma la Francia è comunque diventata un problema. La coppia Marine Le Pen-Jordan Bardella (28 anni) alligna non da oggi nella Francia profonda, nel meridione, nell’est, nelle campagne, nei villages, in grandi città come Marsiglia. Parigi non basta. Il macronismo, cioè il più importante esperimento riformista europeo degli ultimi anni, vacilla, cadrà, anzi forse è già caduto e si aspetta solo l’atto di morte, la certificazione della sua fine. Già, in Francia potremmo avere presto un governo di destra, di estrema destra, che certo sarebbe frenato da Macron grazie al meccanismo della coabitazione ma che costituirebbe comunque un fatto mai accaduto e dirompente: pensiamo solo a come cambierebbe il ruolo di Parigi rispetto al sostegno alla Resistenza ucraina.

Non cade invece il governo in Germania, altra grande malata d’Europa, attraversata dal Fantasma Nero di Afd, secondo partito – e Dio benedica i popolari tedeschi che hanno il primato – mentre la vecchia gloriosa socialdemocrazia, la più antica del mondo, il partito di statisti come Willy Brandt e Helmut Schmidt, è al terzo posto, segno che il governo di Olaf Scholz non è proprio amato. «Non ci penso nemmeno», ha detto il Cancelliere a chi gli chiedeva se fosse disposto a dimettersi: però o s’inventa qualcosa o il suo personale destino è segnato: grazie a una giusta conventio ad excludendum a Berlino Adf non governerà mai ma per la Spd il futuro si presenta tutt’altro che roseo. L’eclissi della socialdemocrazia classica unita alla deflagrazione del macronismo impone scelte nuove se si vuole che l’idea di Progresso abbia ancora un futuro laddove è nata qualche secolo fa, nelle università tedesche, nelle fabbriche inglesi, nei caffè parigini.

Certo, vedere i nazisti primi in Austria fa correre i brividi lungo la schiena – l’imbianchino con i baffetti era di Braunau am Inn, alta Austria – mentre in Spagna i franchisti di Vox, grandi amici di Giorgia, non si fermano, seppure lì popolari e socialisti sono molto forti. Un po’ di nero stria i cieli dell’est europeo, in Olanda. La fotografia del premier liberale belga Alexander De Croo che piange mentre annuncia le sue dimissioni è l’istantanea di un Europa del nord che va a destra. Queste lacrime liberali non sono la grande e definitiva resa alla reazione ma la spia del sonnambulismo europeo in presenza dell’imperialismo russo e alla minaccia eversiva di Donald Trump, paladino ideale dei “neri” europei, tra i quali però si segnala uno stop a Viktor Orbàn, persino in Ungheria c’è un riequilibrio.

È una destra aggressiva che però non è un’Invincibile Armata, né in Italia né in Europa, sia da noi che altrove la scena è piuttosto quella del “reciproco assedio” descritto da Antonio Gramsci quando scriveva dei possibili effetti “morbosi”, cioè di crisi, che lo stallo può produrre. In Italia la destra governa ma l’opposizione non molla, anzi, riprende ad essere interessante, e Meloni non può dire di avere il Paese ai suoi piedi. Poi certo bisognerà vedere cosa scaturirà da questo strano equilibrio italico, molto dipenderà dal centrosinistra o come si chiama: i “cardinali” della sinistra, come li chiama Paolo Rumiz nell’ultimo libro “Verranno di notte”, dovrebbero mettersi sul serio a ragionare.

Fuori dalla Ue, dalla Gran Bretagna, arriverà un bel refolo neo-blairiano il 4 luglio con l’annunciatissima vittoria del laburista Keir Starmer che potrebbe portare freschezza anche in Europa. Come negli anni Novanta, fu da Londra (e da Washington) che prese le mosse la stagione del grande riformismo in tutta Europa, anche se fu di breve momento. Attenzione dunque ad un presente nel quale il riformismo tende a sparire tra le nebbie di un elettorato stordito da mille crisi ma la reazione non ha vinto ancora. Non siamo cioè come nel momento tragico evocato da Stephan Zweig: «Poi, il 28 giugno 1914, echeggiò quel colpo a Sarajevo, che distrusse in un solo istante il mondo della sicurezza e della ragione creatrice in cui eravamo nati, cresciuti e che sentivamo come nostro, sfracellandolo in mille pezzi come un vaso di argilla vuoto». Il “vaso” europeo è solido. Ancora molto solido.