Nelle città italiane che vogliano percorrere la strada del riformismo urbanistico per riattivare qualità, sicurezza, attrattività e bellezza delle loro parti fragili, marginali e in declino, per accogliere tutto lo spettro di diversità umana e vegetale, per aprire gli spazi alla flessibilità degli usi serve un nuovo pensiero politico – come giustamente reclamava qualche giorno fa Pierciro Galeone da queste stesse pagine – che reimmagini radicalmente l’idea di città. Soprattutto per rilanciare una politica urbana nazionale, desolatamente assente da troppi anni. La rigenerazione urbana, quindi, non può essere una semplice nuova locuzione lessicale che come un “pappagallo stocastico” ripeta tutto ciò che è stato già detto sull’urbanistica e la città. È invece una locuzione dirompente che pretende un “nuovo canone”, un insieme di regole, protocolli e strumenti – anche desunti dalle pratiche – che agiscano come un attivatore di nuovi processi di sviluppo sostenibile, per comunità del XXI secolo e non più retrospettivamente novecentesche.

Gli standard urbanistici

Per la mia esperienza di studioso e amministratore, la rigenerazione urbana deve agire come un protocollo abilitante l’innovazione, con carattere sperimentale e con capacità propositive, collaborative e adattive. Serve, quindi, un protocollo dinamico e non una definizione statica (come quelle che pervicacemente ricerca il Parlamento italiano in un’ansia normativa che rischia di sterilizzare tutta la carica innovativa, persino eretica, della rigenerazione urbana). Sono necessarie, invece, azioni a contorno, revisioni e manutenzioni delle norme operative che inneschino, agevolino, accelerino e semplifichino la rigenerazione urbana. Ad esempio è utile una revisione accurata e puntuale degli standard urbanistici non per ridurre le misure di un indispensabile welfare spaziale, ma per estendere la dotazione dei nuovi diritti della città, in risposta alle esigenze della città contemporanea: spazi per la produzione di energia da fonti rinnovabili, parcheggi per biciclette, ciclovie, luoghi sicuri per le donne, aree per l’agricoltura urbana, spazio pubblico performativo.

La sfida da intraprendere

La rigenerazione urbana deve accettare la sfida di adottare un fertile bricolage urbanistico alimentato da approcci creativi, adattivi e incrementali, che mettano insieme tattiche e strategie, capaci di agire sui cicli di vita identitari, di lavorare sulle componenti del metabolismo urbano ancora vive, di connettere pubblico e privato, generando la necessaria propulsione che stabilizzi gli interventi e li renda capaci di produrre impatto nel medio-lungo periodo, e non solo effervescenza inaugurale. Per essere efficace, la rigenerazione urbana – invece che attraverso tradizionali masterplan (obsoleti nella loro modalità onnicomprensiva e arroganza previsionale) – si deve attuare attraverso un approccio negoziale adattivo, stimolato a generare innovazioni, a produrre spazi incompleti da adattare, funzioni parziali da implementare in cooperazione con la comunità, usi temporanei e ibridi.

Libertà di innovare

Serve la libertà di innovare, come hanno fatto in Francia dal 2016, con la “legge sulla libertà di creazione, l’architettura e il patrimonio”, mirata a far evolvere la normazione sulla base di casi concreti e di soluzioni innovative a problemi che la norma vigente avrebbe impedito di risolvere nel modo proposto dal progettista, in quanto ritenuto migliore di quello basato sulla normazione stessa. L’ambizione è far entrare nel diritto comune le sperimentazioni una volta verificate e valutate, rifiutando un approccio conformativo che impedisca qualsiasi processo di vera innovazione. La legge introduce un “permesso di innovare” (accanto al classico permesso di costruire), stimolando una sperimentazione locale, una produzione di differenze invece che di omologie, consentendo ad alcune città mature di essere laboratori viventi di innovazione urbana, prototipi di un futuro tutto da progettare. In Italia potrebbero essere alcune città metropolitane che hanno dimostrato vocazione all’innovazione (Palermo tra queste). Invece discutiamo di una norma nazionale definitoria universale della rigenerazione (“la rigenerazione urbana è quello che la rigenerazione urbana fa”, direbbe Forrest Gump), che la regoli e la normalizzi, al posto di incentivare la sperimentazione, la diversificazione rispetto ai contesti, l’innovazione attraverso le pratiche e l’evoluzione attraverso i prototipi.

Gli obiettivi

Piuttosto che una norma-quadro (o peggio un modello) sarebbe più utile individuare un protocollo per la rigenerazione urbana, non una regola sempre uguale, ma una serie di indicazioni per elaborare azioni specifiche che rimettano in moto il metabolismo dell’area da rigenerare. Serve una cassetta degli attrezzi più adatti per risolvere, volta per volta, i problemi, e in alcuni casi dovremo unire due strumenti per farne uno nuovo. Il canone della rigenerazione urbana evoluzionista deve facilitare iniziative di demolizione e ricostruzione, ristrutturazione e riciclo urbano o nuova costruzione, con l’obiettivo di conseguire la maggiore attrattività dell’area anche dal punto di vista dei nuovi abitanti (stabili, temporanei, intermittenti, nomadi), la facilitazione della localizzazione delle imprese (soprattutto di quelle orientate alla innovazione e alla creatività), la riduzione dei consumi idrici ed energetici (agendo sulle prestazioni degli edifici, sul risparmio e la produzione di energia da fonti rinnovabili), la messa in sicurezza degli edifici da un punto di vista strutturale, la bonifica ambientale delle aree inquinate, la qualità degli spazi pubblici come luoghi per la coesione, la riduzione delle aree impermeabili per il miglioramento dei cicli vitali delle città, il miglioramento della gestione e della raccolta differenziata dei rifiuti, e la mobilità sostenibile incentrata sulla migliore integrazione degli spostamenti pedonali e ciclabili con il trasporto pubblico e con la micro-mobilità.

L’innovazione ecologica

Il canone della rigenerazione urbana inoltre deve comprendere strumenti di sostenibilità economica poiché – di concerto con i diversi livelli di governo per le rispettive competenze – deve poter utilizzare un’adeguata fiscalità urbanistica differenziata attraverso provvedimenti di riduzione del costo degli oneri di costruzione e dei costi connessi agli interventi di rigenerazione urbana, nonché attraverso un adeguato sistema di premialità che agevoli e faciliti gli interventi di riqualificazione, di contenimento del consumo di suolo, di riciclo e riuso rispetto alla espansione urbana, di gestione integrata delle risorse e dei rifiuti. Infine dobbiamo facilitare la costituzione e l’attività di società miste pubblico-privato a cui demandare l’attuazione degli interventi di rigenerazione urbana nel contemporaneo rispetto dei diritti dei soggetti coinvolti e della efficacia e tempestività degli interventi.

La rigenerazione urbana efficace – non semplicemente cosmetica o real estate oriented – deve essere stimolata a domandarsi “what if?”: cosa potrebbe accadere inserendo una funzione imprevista in un’area da rigenerare? Verificando come questa stimoli l’innovazione, incoraggi la cooptazione funzionale di spazi urbani non predeterminabili, ma che potranno accogliere le nuove domande di città di una umanità sempre più articolata, diversificata e ad ampio spettro. In sintesi, perché la rigenerazione urbana (come pratica) non nuoccia alla rigenerazione urbana (come effetto) lasciamole sprigionare tutta l’innovazione ecologica, sociale, culturale, economica, amministrativa di cui è capace. Lasciamola agitare, perché avremo bisogno di tutta la sua capacità di entusiasmare. Agevoliamola a organizzarsi, perché avremo bisogno di tutta la sua forza riformista.

Maurizio Carta

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