“Non c’è più rispetto”, diceva una canzone di successo degli anni Ottanta. E, a quanto pare, non c’è ancora. Tanto che i responsabili del vocabolario Treccani hanno scelto proprio il termine “rispetto” come parola dell’anno per il 2024. Non che servisse questa informazione per evidenziare il problema, ma l’occasione è senz’altro utile alla riflessione e aiuta a definire l’impatto dell’assenza di rispetto e a capire come questo fenomeno sia capace di condizionare le nostre esistenze.

La magnanima concessione

Ciò che colpisce è che questo termine ricorra con straordinaria frequenza nei discorsi di tanti: non solo abusato, quindi, ma soprattutto equivocato e frainteso. A brandirne il senso, piegandolo al proprio comodo, sono infatti tutti coloro che a qualsiasi titolo vogliono salvaguardare posizioni dominanti ai danni del prossimo. Parliamo – per capirci – del rispetto che pretendono patriarchi, violenti, manipolatori e sfruttatori di ogni risma. Algebricamente, si potrebbe dire che il rispetto di cui blaterano questi aguzzini vale quanto l’inverso della libertà. Perché è evidente che a ogni indebita estorsione di rispetto corrisponde una mutilazione dei diritti. Se, generalmente, c’è una certa macroscopica concordia sul concetto di rispetto nell’ambito della legge – nel senso che è universalmente accettata l’esigenza di dover rispettare le norme per vivere in pace – altrettanto non si può dire quando si scende nel particolare delle dinamiche sociali, specie quelle che coinvolgono le condotte più controverse. Su quel fronte il famigerato rispetto è in realtà fuori controllo, determinando sacche di afflizione per intere categorie di cittadini cui non viene riconosciuto, se non – nei casi limite – nella forma residuale di una magnanima concessione. Uno degli equivoci più disturbanti, sotto questo aspetto, è quello che riguarda la confusione tra la definizione canonica di rispetto e l’accettazione. L’esempio più immediato che si può offrire riguarda i conflitti che sorgono intorno agli orientamenti sessuali degli individui: ancora lontane dall’ottenere il pacifico rispetto che meritano, queste situazioni sono in molti casi sospese nella patetica nebbia dell’accettazione. Qualcosa, cioè, che è molto prossimo all’ancora più gretta e ipocrita categoria della tolleranza. Questo si verifica inevitabilmente quando il rispetto – atteso e dovuto – non è confortato dagli opportuni riconoscimenti di legge, certo, ma ancor più si deve a una resistenza culturale che fa dell’inclusività una minaccia identitaria, della diversità una macchia e dell’eguaglianza una troppo a lungo sospirata chimera. Un fronte, questo, sul quale l’impegno dei singoli e delle istituzioni non è mai abbastanza: fino a ora, certamente, non sufficiente.

La coerenza è un valore ma non una gabbia

Per lamentarsi del prossimo bisogna però avere la coscienza pulita. E nello specifico sarà molto difficile che qualcuno ci rispetti, nel senso più ampio e positivo del termine, se non avremo fatto tutto il possibile per rispettare noi stessi. E su questo in tanti hanno un gran lavoro da fare: riconoscendo ad esempio nella coerenza un valore ma non una gabbia, e valutando quali nostre condotte – che riteniamo magari impeccabili – possano invece ledere oggettive aspettative del prossimo. E, ancora, partecipando a ogni lecita iniziativa che possa garantire ai diritti un rispetto solido, reciproco e definitivo. L’etimologia del termine stesso, ahimè, è un po’ scoraggiante. Perché il lemma dovrebbe rimandare al guardarsi alle spalle, dietro di sé. Appare forse troppo ottimistico, una pia illusione, giacché in tanti – vedendo solo sé stessi – faticano a guardare in qualsiasi altra direzione. Figuriamoci indietro.