Ottiero Ottieri, nato a Roma nel 1924, morì diciotto anni fa, la mattina del 25 luglio 2002, per un infarto, nella casa di via San Primo 6, a Milano, come scrisse la figlia Maria Pace, nella Cronologia del Meridiano a cura di Giuseppe Montesano, uscito da Mondadori nel 2009: una scelta essenziale dei suoi testi più importanti fra i quali non venne incluso Il campo di concentrazione, pubblicato per la prima volta nel 1972 e oggi molto opportunamente ristampato da Guanda con un’introduzione di Vittorio Lingiardi. Spero che almeno qualche giovane possa leggerlo con il giusto profitto. Ho sempre considerato questo diario svizzero dell’anno trascorso dal protagonista nella junghiana Klinik am Zürichberg, specializzata in malattie depressive, una delle opere più estreme della letteratura italiana del Novecento, non solo e non tanto perché, come confessò l’autore, l’energia da cui scaturì si alimentava dalla pura volontà di sopravvivenza (“scrivo per scrivere, per gettare un ponticello sopra l’abisso, per essere nella realtà e nello stesso tempo per estrarmi dalla realtà”), quanto perché in pochi altri luoghi espressivi della nostra tradizione possiamo trovare l’esempio di un’estensione stilistica fine a se stessa, priva di trama, nell’azzeramento tematico di qualsiasi evento.

Niente storie. Niente romanzi. Nessun intrattenimento. Le frasi dettano il ritmo di chi scrive in una prosa che ha dentro di sé il nocciolo della poesia. Fu questo, a ben riflettere, il sogno surrealista di Breton e compagni, finito nelle misere secche dello sperimentalismo più trito: avanzare nel vuoto come un equilibrista sul filo, attribuendo valore fondativo ai materiali dell’inconscio da altri scartati alla maniera di relitti. Non si tratta soltanto di un virtuosismo tecnico. Stiamo parlando di vita e morte: questioni radicali dell’arte antica. Che a portare a termine tale compito sia stato uno degli scrittori italiani più civilmente impegnati fa parte dell’originalità inclassificabile di Ottieri, allo stesso tempo esponente del famigerato “filone industriale” (Donnarumma all’assalto, 1959), nonché lirico provocatorio e paradossale (Il poema osceno, 1996). Quale rapporto poteva mai esserci tra il funzionario dell’Olivetti che a Pozzuoli reclutava il personale da assumere e l’anziano paziente innamorato della giovane infermiera?

Per quanti, come il sottoscritto, ebbero il privilegio di conoscere personalmente questo scrittore etico volutamente contraffatto, non si trattava di una contraddizione insanabile, dal momento che la sua cosiddetta nevrosi nasceva dalla fallita tensione partecipativa: era, ancora una volta, il tormento dell’intellettuale novecentesco, dalla Coscienza di Zeno al Male oscuro, tuttavia fronteggiato in modo nuovo, non più quale occasione mancata, truciolo di falegnameria adatto a trastullarsi per giustificare i propri alibi interiori, bensì secondo un ritmo fisiologico di strozzata serenità alla Henry Miller, quello del Big Sur: prova ad assecondare la tua natura e, se non ci riuscirai, pagane le conseguenze senza credere di poterle evitare. Svevo e Berto, in tale prospettiva, possono tornarci utili ancora oggi per ritagliare il profilo di Ottieri, irrefrenabile distruttore di qualsiasi illusione palingenetica, a patto di non appiattirlo in un mero registro psicanalitico. Nella sua multiforme produzione il “documento” non è semplice cronaca, bensì macchia di colore.

«Mi vogliono far diventare maturo ragionevole guarito e io voglio rimanere un bambino che vive la notte e oblitera il giorno, affascinato dall’incoscienza, tirato indietro la mattina da corde che lo riportano verso la notte trascorsa»: in questa fulgida e patetica ammissione quasi corazziniana filtra il più puro sentimento italiano, aggiornato nello spazio fantastico della “linea gotica”, tra Firenze e Bologna, là dove agonizza il vitalismo del “divino mondano” sepolto nel cimitero di Chiusi, vecchia dimora paterna, nella terra avita di cui l’unico bizzarro rampollo non si volle mai occupare.
Ricordo una volta quando lo accompagnai in macchina a Villa Adriana, erano gli anni Novanta di una primavera incipiente, lui già non camminava più tanto bene.

Partimmo dall’Hotel Locarno, vicino a Piazza del Popolo, dove sempre alloggiava quando tornava nella capitale e arrivammo in un batter d’occhio davanti all’entrata del parco archeologico. Gli bastò aspirare dal finestrino i profumi degli alberi, senza nemmeno scendere, per sentirsi subito meglio. Fu un pomeriggio infinito in cui parlammo di tutto: da Lugano a via Tiburtina. Eppure non entrammo. L’eterno paziente, nonostante le mie insistenze, continuò rimanere seduto. La stanchezza e il senso di vanità lo bloccarono. Si limitò ad aprire leggermente la portiera lasciando filtrare gli effluvi. Andai a prendere da bere al chiosco. La barista, in verità molto carina, mi aiutò a portargli il caffè nel bicchierino di plastica con qualche stuzzichino. Ottiero era come frastornato: troppa storia, troppa vita, troppo amore. In fondo il suo grande tema-fondamento restò sempre quello 01