Forse è partito l’attacco alla Lega. L’attacco della magistratura, voglio dire. I sondaggi danno leggermente in calo il partito di Salvini. Sotto al 30 per cento. Magari qualcuno coi pensieri maligni può sospettare che sia stato scelto per questo il momento dell’azione.

I magistrati di Genova, quelli che sono titolari dell’inchiesta famosa sui 49 milioni, hanno sguinzagliato i finanzieri in varie perquisizioni, a Milano, a Monza, a Lecco. Il bersaglio è l’associazione Maroni-Presidente, quella che sostenne Bobo Maroni nella sua campagna elettorale, vittoriosa, nel 2013 per la presidenza della regione Lombardia. Maroni in quell’occasione sconfisse Umberto Ambrosoli, giovane avvocato di sinistra, figlio di Giorgio Ambrosoli, anche lui avvocato, che fu ucciso dalla mafia nel 1979 perché stava incastrando Sindona (ricordate la storia del finanziere Sindona, gran faccendiere a metà strada tra politica e mafia, ucciso in carcere, come in un libro giallo, nel 1986?).

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I magistrati sospettano che i 49 milioni (illegalmente percepiti dalla Lega attraverso un meccanismo complicati di falsi rendiconti delle spese rimborsabili dallo Stato), almeno in parte siano transitati nei conti di questa associazione di Maroni. Il quale, dal 2012 fino al 2013, cioè fino all’elezione a governatore lombardo, era stato il segretario e capo della Lega, subito dopo Bossi e subito prima di Salvini e della svolta sovranista. Siccome il presidente di questa associazione intitolata a Maroni era Stefano Bruno Galli, che oggi è assessore regionale, i Pm hanno deciso di indagare Galli. Non per un reato piccolo piccolo ma addirittura per riciclaggio. L’accusa di riciclaggio è molto seria, il codice penale (articolo 648 bis) prevede pene fino a 12 anni. Superiori alle pene per stupro e appena appena inferiori a quelle per omicidio con qualche attenuante. Diciamo che Galli è nei guai.

Anche perché Bobo Maroni, ieri, forse un po’ impaurito, è sembrato quasi quasi che lo scaricasse. Ha dichiarato di non sapere niente dei fondi usati dalla associazione intestata al suo nome. Ha detto che lui non se ne occupava, e che però – almeno questo lo ha dichiarato – ha piena fiducia negli amministratori. Cioè in Galli. Sembra però un po’ una frase fatta, quasi obbligatoria, non sembra proprio una difesa convinta e appassionata.

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Il fatto è che quando si capisce che i magistrati stanno muovendo guerra, guerra seria, i politici, non di rado, si impauriscono un po’. Galli è sulla graticola, chiaro. Ma è difficile immaginare che una inchiesta così, con le spettacolari perquisizioni di ieri, sia stata messa su per andare a colpire solo Stefano Bruno Galli. I Pm, forse, vorrebbero andare oltre. Cioè oltre l’orizzonte del povero Galli e anche di Maroni, che ormai è un ex, è fuorigioco e interessa poco alle Procure.

E allora chi è l’obiettivo? Provate un po’ a immaginarlo? Già: Salvini. L’altro ieri Angelo Panebianco ha scritto un articolo sul Corriere della Sera molto bello – a proposito della democrazia giudiziaria e dello strapotere della magistratura – nel quale spiega come e perché la magistratura, appoggiata da una forte spinta popolare, quando vede un personaggio della politica salire troppo su, lo abbatte. Successe così con Craxi, con Andreotti, in parte con Renzi (con meno successo) e – diceva Panebianco – presto potrebbe succedere anche con Salvini.
Zacchete. Non è passato manco un giorno dalla pubblicazione dell’articolo.

I magistrati genovesi, a quanto si sa, sospettano che i famosi 49 milioni spariti siano passati attraverso il fondo di Maroni, poi siano finiti in una banca svizzera e infine siamo ritornati clandestinamente in Italia. Dove? Nelle casse della Lega? I Pm considerano improbabile l’idea che Maroni abbia consumato lui, in pochi mesi da segretario del partito, tutti quei soldi. E se non li ha spesi lui, chi li ha spesi? Il nome del suo successore qual è?

E poi, lo sapete tutti, c’è quell’adagio – «non poteva non sapere» – sulla base del quale sono stati condannati in passato decine di politici, alcuni anche di grandissimo prestigio, per esempio proprio Craxi. In che consiste questo adagio? In una nuova idea di diritto, secondo la quale si può condannare una persona anche se non ci sono le prove di un suo coinvolgimento in qualche fatto di corruzione, sulla base della carica che ricopre. Craxi fu condannato per le tangenti prese dal Psi, anche se non risulta che le avesse prese lui. «Sapeva, sapeva», dissero i giudici, «sicuramente sapeva».

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Così, qualche anno dopo, Berlusconi fu condannato per un’evasione fiscale di un paio di milioni non sua personale ma della Fininvest (due milioni su circa 400 milioni di tasse pagate) sebbene all’epoca di quella dichiarazione fiscale lui fosse presidente del Consiglio ed è abbastanza improbabile che si occupasse direttamente della dichiarazione della Fininvest. E però… E però, appunto, non poteva non sapere, e così è finita la sua carriera politica.

Non poteva non sapere è un principio giuridico applicato solo ai politici. È il nuovo diritto targato Anm. E Salvini, salvo smentite, è un politico. Riuscirà a sottrarsi alla morsa, oppure anche lui pagherà lo scotto al partito dei Pm?

Per quel che mi riguarda – dico per le mie convinzioni e speranze politiche – posso augurarmi solo la sconfitta di Salvini. Che è il capo della destra reazionaria, almeno, io penso così. Se però questo succederà anche questa volta per mano del partito dei magistrati e non nel corso di una democratica lotta politica, per l’Italia sarà un’ennesima sciagura. Sarà una ferita profonda, molto profonda, per il sistema democratico. E così, anche uno che considera il sovranismo il male dei mali si trova a sperare che Salvini riesca a sottrarsi alla caccia al cinghiale delle procure.

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.