La professoressa Liliana Dell’Osso, presidente dell’associazione psichiatri italiani e numero 55 della Top Italian Scientist, Clinical Sciences che include tutti gli scienziati italiani nel mondo, su questo delicatissimo tema interviene così: «Le riflessioni contenute in questa lettera gettano luce sulle attuali condizioni della psichiatria italiana, descritte attraverso lo sguardo obiettivo e sincero di un giovane immerso nella quotidiana pratica clinica dei servizi territoriali. Sono informazioni preziose, che restituiscono il quadro di un sistema in crisi, come testimoniato dal fatto che sempre più spesso i nostri psichiatri neospecialisti scelgano di operare nella sanità privata, rinunciando per la propria salute fisica e mentale a svolgere la professione nei servizi pubblici, ormai in via di spopolamento».

«La psichiatria del 2024 – continua la scienziata – non è infatti, per nulla, sovrapponibile a quella che ispirò le riflessioni basagliane. Il progresso, soprattutto in ambito farmacologico, ha consentito un superamento delle antiche sfide, ma nuove problematiche, ancora non del tutto illuminate dalla conoscenza scientifica, hanno già valicato le porte di pronti soccorsi, centri di salute mentale e spdc, imponendo una gestione complessa e spesso insostenibile. Disturbi del neurosviluppo, sindrome di hikikomori, disturbi alimentari multiformi, quadri associati a nuove sostanze psicoattive: alcuni esempi di un panorama complesso e in costante evoluzione, così come la società nel quale è inserito», e «viene meno, come sottolineato accoratamente dal giovane collega, la possibilità di prestare al paziente le giuste cure, la cui qualità, d’altronde, non può prescindere dal benessere psicofisico di chi le presta».

Anche Diana De Ronchi, ordinario di psichiatra all’università Alma Mater Studiorum dell’università di Bologna, con una laurea anche in Giurisprudenza, già referente per la Commissione di Ricerca della Comunità Europea a Bruxelles, ha fornito il suo prezioso contributo in una nota passionale che pubblichiamo integralmente. «Ho letto l’appello e ho ricordato quello di oltre 100 direttori dei Dipartimenti di Salute Mentale scritto un anno fa dopo la morte della psichiatra Barbara Capovani. Entrambe esprimono dolore (ebbene sì, dolore, anzi grondano dolore). Lo stesso dolore che proviamo tutti noi psichiatri e che provano i nostri Pazienti. Di qualunque città o regione. Il dolore nel vedere dimenticato da tutti, come fosse qualcosa di indicibile, il tema del rapporto tra salute mentale e giustizia, e con l’attribuzione allo psichiatra del compito di controllo del paziente, non del dovere di cura (badate bene) ma del controllo sociale. Non più medici, ma custodi. Basaglia ci aveva liberato (sì, anche gli psichiatri erano stati liberati) del ruolo di controllo custodiale in vista del ruolo di medico… ed ora il dovere di custodia torna prepotente. Il dolore nel vedere ragazzine di 13 anni con autismo o ritardo mentale gravissimo ricoverate nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura per adulti, perché in tante civilissime città non vi sono posti letto in urgenza per adolescenti con problemi comportamentali. Il dolore nel sentire la nostra voce opporsi a tutto questo, una voce spesso inascoltata. E che evidentemente è meglio non udire. Il dolore per alcuni di noi, ricercatori della psichiatria, nel non potere far parte di un IRCCS (Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico), ma di tentare comunque disperatamente di fare ricerca (pur avendo vinto prestigiosi Progetti PNRR o della Comunità Europea) perché i letti (evidentemente insufficienti) sono sempre occupati dalle urgenze, continue, urgenti, sempre più urgenti, più urgenti ancora. Tutte le discipline mediche progrediscono, mentre il nostro sogno di disegnare trattamenti “su misura” per le malattie psichiatriche basati sulla genetica e sul profilo biologico del paziente, deve rimanere appunto un sogno? Oppure dovremo tornare all’estero, dove siamo già stati, laddove la ricerca psichiatrica è non solo tollerata ma desiderata e finanziata nelle istituzioni pubbliche? Scusatemi se ho usato toni forti, ma abbiamo combattuto a mani nude da una vita. Mi scusino i miei Pazienti, io vorrei dare loro speranza e nuove scoperte, vorrei dare loro una vita felice. Non posso dimenticare il nostro Mario (nome di fantasia) che veniva a trovarmi alla prima lezione di Psichiatria al Policlinico, per fare vedere agli studenti di Medicina come la sua vita fosse cambiata con la riabilitazione ed un farmaco efficace, scelto “su misura”. I miei studenti di Medicina ricorderanno certamente Mario. Lui non viveva più in una struttura chiusa, ma nella sua casa».

Anna Germoni

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