Fascismo e antifascismo
Scalfari fu bravissimo a costruire grandi nemici per un grande giornale
Ad aprirmi gli occhi e un varco storico nella mente è stato un lettore che mi ha scritto una lunga lettera per spiegarmi che le ideologie erano ottime e che furono tempi d’oro quelli in cui fascismo e antifascismo potevano darsene di santa ragione con morti e feriti ma anche con tanta soddisfazione ideologica. Questo lettore poi specificava di essere di destra e soltanto alla fine rivelava ciò che non avrei mai pensato. E cioè che negli archetipi della storia d’Italia la guerra tra fascismo e antifascismo non è quella tra il fascismo di Mussolini e l’antifascismo dei partigiani e dei fuorusciti. No, il periodo storico che viene vissuto emotivamente in modo più intenso è quello della guerra civile tra Brigate Rosse e Brigate nere negli anni 70.
La prima immagine che mi viene in mente è quella del giudice Vittorio Occorsio (ucciso da una sola pallottola della lunga raffica esplosa da un giovane neofascista dei Nar) accasciato nella sua auto con un rivolo di sangue che si raggrumava sotto l’orecchio destro su cui marciavano centinaia di piccole formiche. Ero allora un giornalista di Repubblica e anche quell’immagine fa parte dell’album delle cose che non si dimenticano perché le abbiamo viste e vissute. Quando sentivo parlare dagli adulti di personaggi come Nitti, Salandra, Giolitti, o l’onorevole Curlo – famoso per il suo scambio di lettere con l’onorevole Meda – erano per me sconosciuti, inconoscibili, privi di qualsiasi appeal. Poi ho pensato che cosa potessero immaginare coloro che hanno dieci, venti, trenta anni meno di me e ho visto che la legge è sempre quella: la memoria esiste laddove esiste l’emozione del ricordo. Ciò che è possibile è fabbricare un’emozione creata ad arte, che è il mestiere della letteratura per parole o immagini. Come ognuno di noi sa, la creazione delle emozioni non ha niente a che vedere con l’informazione. Senza Tolstoj nessuno ricorderebbe l’invasione napoleonica della Russia.
Poi, nel 1976, mi sono trovato a far parte del fortunato gruppo che grazie a Eugenio Scalfari e con Eugenio Scalfari dette vita al più grandioso fenomeno del giornalismo italiano: il tabloid “Repubblica” di cui oggi tutti parlano perché Eugenio è morto. E cominciò un fenomeno che neanche Scalfari aveva previsto e solo in parte dominava: il giornale andava malissimo, le sottoscrizioni non bastavano, Carlo De Benedetti pompava soldi scommettendo su un’impresa che non era ancora sua ma lo sarebbe diventata quando Eugenio gli avrebbe venduto tutta la nostra baracca provocando crisi di pianto, discorsi strappacuore, l’ira di Giorgio Bocca, lo scoramento di tutti. Ma Eugenio vendeva. Quel che allora non sapevamo era che Scalfari prima di vendere a De Benedetti come era previsto nei loro accordi, andò a suonare al piano la Rapsodia in Blue di Gershwin a quattro mani con Confalonieri. Secondo De Benedetti, il grande Eugenio era andato a proporre all’odiato Silvio il tesoro della corona. Quando De Benedetti decise di disfarsi di Scalfari, pensava di farlo con secca brutalità: l’editore non è soddisfatto del suo direttore, passi pure alla cassa per la liquidazione.
Tutto ciò me lo ha raccontato Carlo De Benedetti con cui facemmo insieme un libro intervista Guzzanti versus De Benedetti e io rimasi allibito: “Avevi davvero deciso di licenziarlo sui due piedi?”. De Benedetti raccontò di aver affidato al primo editore ed amico di Scalfari, il principe Carlo Caracciolo, la sua decisione. E che Caracciolo, dopo averla comunicata a Scalfari disse che Eugenio chiedeva che il licenziamento potesse essere fatto passare per dimissioni. Ezio Mauro gli subentrò nel giorno stesso, strappato al desk da cui dirigeva La Stampa di Torino (cosa che offese a sangue Gianni Agnelli), e portato a Roma per firmare il giornale del giorno successivo. La differenza tra l’antiberlusconismo di Scalfari e quello di De Benedetti è oggi l’argomento del giorno. E il bell’articolo di Michele Prospero, che è una riflessione presente su un passato pieno di paradossi, stimola chi c’era fin dall’inizio, come me, a ricostruire nel vissuto autentico quella vicenda. Scalfari era un antiberlusconiano molto particolare.
Lui aveva bisogno di grandi nemici per fare un grande giornale, che partì senza una linea politica ma che poi la trovò proprio grazie a quel genere di eventi: i rossi contro i neri negli anni Settanta e Ottanta, che creò allora un immaginario collettivo potentissimo, moltiplicato dalla Terza Rete della Rai da poco affidata al Partito comunista, che mise i migliori capitani al comando della sua flotta: Angelo Guglielmi direttore di RaiTre che sosteneva la necessità di dare voce alla realtà, ma selezionando le tonalità che allora si chiamavano voluttuosamente “sporche”. E l’altro era Sandro Curzi direttore del Tg3 subito ribattezzato fra i giornalisti come Tele-Kabul dal nome della capitale dell’Afghanistan invaso dai russi come oggi l’Ucraina. Fu allora che sia Scalfari che Berlusconi videro e fronteggiarono la nuova realtà complicatissima e sanguinosa di quegli anni muovendosi guerra senza mai uccidersi come lottatori giapponesi. Aldo Moro invece pagò con la sua vita perché non aveva capito bene quale fosse il gioco che si giocava fra chi creava la narrazione dei fatti presenti, da consegnare al futuro senza permettere alcuna correzione.
Lo scontro fra Brigate Rosse (certamente influenzate e in parte dirette dai servizi dell’Unione Sovietica come ho documentato su queste pagine come ex Presidente di una commissione d’inchiesta) e i NAR del terrorismo nero, gruppi armati cui si aggiungevano sigle oggi dimenticate, invasero potentemente l’immaginario di una generazione che oggi è fatta di cinquantenni, più o meno. Fu creato e disfatto il mito di una resistenza di destra e una di sinistra, una seconda storia d’Italia da una centrale di potere, quella di Repubblica, che esercitava un fascino crescente sull’opinione pubblica. Erano gli anni in cui il quotidiano Repubblica si indossava nella tasca posteriore dei jeans e sul portapacchi della bicicletta.
(1- continua)
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