L'addio al giornalista
Chi era Eugenio Scalfari: un prodigio perfido, amabile e multiforme
Era diventato un gioco fra noi: quando verrà il giorno, pensaci tu. Intendeva, il giorno del necrologio. Poi diventammo avversari. O meglio, lui mi applicò quel marchingegno medioevale riesumato dall’inquisizione che chiamava il cono d’ombra. Quando qualcuno esce, usciva, dal suo seminato, diventava improvvisamente invisibile come il Calandrino di Boccaccio quando credeva di aver trovato la pietra elitropia. E così mi applico il cono d’ombra quando diventai amico e confidente del presidente della Repubblica Francesco Cossiga, ed ero ormai alla Stampa di Paolo Mieli, Lui, Eugenio Scalfari, stava brigando per cacciarlo dal Quirinale con un certificato medico di totale pazzia, dimenticando che Cossiga era stato il suo ospite di tutti i mercoledì a pranzo a casa sua dalla prima moglie, finché non consigliò lui stesso a Ciriaco De Mita di farlo eleggere presidente del Senato dopo la lunga depressione seguita all’assassinio di Aldo Moro.
Quanto ad Aldo Moro, Scalfari capeggiava con toni giacobini il cosiddetto partito della fermezza che voleva Moro morto e dimenticato mentre io facevo naturalmente parte dell’altro mondo, che andava da Craxi a Pannella a Lotta continua e una parte semiclandestina del Pci meno forcaiolo (in nobile gara con la Dc) il cui motto era “primum vivere” mentre quello di Scalfari era primum seppellire. Il nostro primo scontro fu allora, quando io e una decina di Repubblica firmammo l’appello di Lotta Continua per salvare la vita di Moro trattando se c’era da trattare. Io scrissi un fondo, che Eugenio mi cestinò, in cui ricordavo che il giovane Giulio Cesare, preso in ostaggio dai pirati Illiri, scrisse ai suoi di pagare il riscatto e che una volta libero tornò per crocifiggere tutti i pirati agli alberi delle loro navi. “Abile”, commentò Eugenio accartocciando il mio articolo prima di lanciarlo nel cestino.
Con Aldo Moro, Scalfari aveva un antico contenzioso: lui (perché direttore) e Lino Jannuzzi come autore erano stati condannati per aver scritto una serie di articoli sull’Espresso in cui si sosteneva che il presidente della Repubblica Antonio Segni, in combutta con il comandante dei carabinieri Giovanni De Lorenzo, avessero architettato un colpo di Stato chiamato in codice “Piano Solo” che avrebbe dovuto scattare nel 1964 imponendo l’arresto di migliaia di dirigenti comunisti e socialista, sindacalisti e anche alcuni democristiani che avrebbero dovuto essere arrestati (“Nottetempo casa per casa” recitava il suggestivo titolo) e poi concentrati in Sardegna a capo Marongiu. Il colpo sarebbe stato però sventato dall’intervento di alcuni politici, fra cui Giuseppe Saragat, futuro Presidente e il vecchio segretario socialista Pietro Nenni che aveva avvertito “un tintinnar di sciabole”, e secondo la leggenda ne sarebbe nato un alterco talmente violento da provocare un malore al presidente Segni che pochi giorni si dimise.
Gli articoli uscirono nel 1967 e Scalfari e Jannuzzi furono condannati, ma subito messi in salvo dal segretario del Partito socialista Giacomo Mancini che candidò Scalfari a Milano e Jannuzzi a Sapri per il Senato, sottraendoli così all’arresto. Scalfari fu costretto a lasciare la direzione dell’Espresso e si dedicò con ardore alla sua attività di deputato socialista a Milano dove si alleò con il vicesegretario del Psi Giovanni Mosca contro l’emergente Bettino Craxi aprendo un conflitto furioso che avrebbe dominato successivamente tutta la storia d’Italia e che si concluse con la morte ad Hammamet di Craxi inseguito dai mandati di cattura. Un successivo processo in appello scagionò Scalfari e Jannuzzi ma il primo attaccò violentemente Aldo Moro, segretario della DC, perché si era rifiutato di togliere gli “omissis” ovvero la censura a una serie di parole contenute in un documento che secondo Scalfari avrebbe dimostrato che il tentativo di colpo di Stato ci fu. Quando molti anni dopo il documento fu liberato dagli omissis si vide che non nascondeva alcuna verità segreta, ma intanto Scalfari e Moro erano diventati nemici irriducibili e uno degli esiti fu il famoso discorso alla Camera, che ascoltai con Scalfari a Montecitorio, in cui Moro disse che la Democrazia Cristiana “non si sarebbe fatta processare sulle piazze”.
Scalfari si ripresentò alle elezioni successive del 1973 ma fu trombato per una manciata di voti a causa di un articolo sul Corriere in cui si raccontava come il deputato Scalfari avesse detto a un “ghisa” (vigile urbano) milanese “lei non sa chi sono io”. La notizia aveva raggiunto Craxi che aveva amici a via Solferino, i quali misero in prima pagina la notizia che fece perdere a Scalfari i voti per essere rieletto. Ho avuto il privilegio di ascoltare le due versioni di questa storia, sia quella di Eugenio che di Bettino, Mi disse Eugenio:; ero alla stazione di Milano per prendere Serena (Rossetti, la sua seconda moglie) quando un vigile mi disse che dovevo spostare la macchina. Dissi: “E quella macchina lì?” “Quella? è del Prefetto” rispose il vigile. E allora replicai: “E io sono un deputato della Repubblica”. “Patente e libretto” disse il vigile. La patente era illeggibile perché era rimasta nel costume da bagno, ma secondo il vigile era scaduta. “Favorisca venire in caserma, prego” disse il vigile. E in caserma i cronisti seppero e il Corriere scrisse.
La versione di Bettino Craxi fu più breve: “Quel cretino (Scalfari) si era parcheggiato davanti alla stazione e aveva detto al vigile che lui poteva sostare dove voleva perché era un deputato: figurati i milanesi come l’hanno presa. Comunque, chiamai il Corriere, raccontai quel che era successo e così finì l’avventura del deputato Scalfari”.
Sconfitto, Eugenio tornò all’Espresso sicuro di riavere la sua scrivania di direttore, ma la famosa “banda dei quattro” composta da Livio Zanetti, Corbi e altri due che non ricordo, gli sbarrarono la strada. Scalfari poteva scrivere soltanto su un piccolo supplemento economico varato appositamente, chiamato “Lettera finanziaria”. Fu così che nacque Repubblica: Eugenio era furioso e decise di dar corpo a una sua antica idea: un giornale di formato tabloid ancora inesistente in Italia, con un “paginone” di cultura senza la tradizionale terza pagina. La storia di come Scalfari riuscì a mettere insieme un grande colletta raccolta da lui stesso e da Carlo Caracciolo che fu il primo editore del quotidiano, è lunga e nota.
A me accadde di incontrare e fare amicizia con Serena Rossetti in un ospedale in cui era ricoverato un mio caro amico redattore dell’Espresso. Scalfari mi convocò nella redazione dell’Espresso a via Po. Portava degli occhiali con una severa montatura d’acciaio e i suoi capelli e la sua barba erano brizzolati. Mi fece vedere i menabò, i progetti disegnati delle pagine del futuro quotidiano e mi parlo con quella voce impostata e deliziosamente trombonesca che imparai a riprodurre perfettamente e con la quale mi divertii a licenziare un caporedattore detestabile, e convocare redattori nel suo studio. La sua voce normale era del tutto amichevole e romanesca e anzi creammo subito una speciale parlata duale che mantenemmo finché fu viva la nostra straordinaria amicizia. Mi affidò servizi che equivalevano a una tesi di laurea: parti, vai dove ti pare e portami un resoconto su come è nata la borghesia europea. E mi costringeva preventivamente a leggere l’enorme e affascinante carteggio fra i fratelli Verri e le cronache vive della Rivoluzione francese e la giustizia britannica. Oppure mi spediva sulle orme di Ulisse o sulla scia dei galeoni della Serenissima. Ma più che altro cronaca politica quotidiana, da scrivere sempre in modo letterario, immaginifico, settario perché il suo era un vascello pirata e non un piroscafo di linea.
Quando uscì un libro intitolato Il cittadino Scalfari, ne gettò una copia sul grande tavolo su cui si celebrava la famosa “messa cantata”, ovvero la riunione del mattino, e disse. «In questo libro si sostiene che io sia stato prima fascista, poi monarchico, liberale, radicale, socialista, comunista e democristiano. Ebbene, è tutto vero». Nel bellissimo documentario che gli hanno dedicato pochi mesi fa le due figlie Donata ed Enrica che lui adorava (e sull’adorare i figli eravamo in grande sintonia) rispondeva a una domanda sulla paura della morte: «Io non ho nessuna paura della morte. Non che sia contento di morire, ma non provo nulla di fronte a un fatto ineluttabile». Ed è morto così, di vecchiaia e molto ricco per il grande successo che ha avuto e la sua morte mi tocca perché per molti anni siamo stati davvero molto vicini anche quando ormai io non approvavo nulla dei suoi progetti politici, ma non è importante perché Eugenio Scalfari è stato un genio rinascimentale, un grandissimo artigiano e un costruttore di giornali.
Amava e odiava Indro Montanelli e fra loro la differenza era che Scalfari cominciò da direttore di giornale senza essere mai stato un giornalista mentre Indro era anche la quintessenza del redattore, dell’inviato specialissimo. Scalfari non è stato mai un inviato ma ha creato i migliori inviati speciali di un mestiere grandioso, ormai scomparso e presuntuoso, miserabile e nobile: quello di giornalista ai nostri modi, un giorno dietro una porta chiusa per strappare una dannata dichiarazione e poi la foresta, il Libano, le bombe, il sangue, la morte, lo champagne, gli alberghi di lusso e la fame, la sabbia, il mito del pezzo da spedire dettandolo al telefono, per poi aspettare col cuore in gola il giudizio di quell’uomo totalmente immodesto che confidenzialmente chiamavamo Zeus. Quando fu trovato il corpo di Aldo Moro nella Renault di via Caetani, tra Botteghe Oscure e piazza del Gesù, (le due sedi storiche del Pci e della Dc) io piansi di rabbia perché odiavo il partito della fermezza, guidato proprio da lui, Scalfari, che avvertendo il trauma disse con fastidio: “Sussù! Animo, animo!”.
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