L’ha ricevuto dopo pranzo a casa sua, nel bilocale a Santa Marta. Dove il papa riceve gli amici.  Hanno parlato per più di un’ora. L’ha abbracciato, baciato, consigliato, accompagnato fin sull’uscio. Ha lasciato vedere a tutti il sorriso aperto, intimo, del Bergoglio felice e contento. C’è una fila sterminata di governanti assortiti di mezzo modo che verrebbe in ginocchio sui ceci fino a Roma per strappare un sorriso così da mettere sui manifesti. Poi c’è la foto. Quella che in una eventuale campagna elettorale nel Brasile, terra di conquista delle chiese evangeliche ma pur sempre il più grande Paese cattolico sulla faccia della Terra, vale parecchi milioni di voti.  È la foto di un Lula piccolo piccolo, composto e commosso, con la mano del papa in testa. La mano de Dios!

Altro che endorsment, una vera benedizione per Lula, ex presidente condannato in appello a nove anni e sei mesi di prigione per corruzione e riciclaggio, uscito di cella a novembre dopo 19 mesi perché una sentenza del Tribunale supremo ha considerato illegittima la detenzione prima del terzo grado. E tuttora inseguito da una serie di accuse, cinque processi ancora in piedi (ogni volta che sembra uscire illeso da uno, ne spunta magicamente un altro) che, almeno sulla carta e salvo miracoli dell’ultimo minuto, gli impedisce ogni candidatura. Papa Francesco, il pontefice del “chi sono io per giudicare” una sentenza ieri l’ha emessa. E bella pesante, con eco planetaria. Una sentenza politica. Se i gesti pubblici hanno un senso, il messaggio nemmeno tanto implicito uscito dal Vaticano, è il seguente: è questo signore qui il vero presidente del Brasile, se devo parlare di piani per combattere la fame, la povertà, se devo parlare di Politica, io con lui parlo. È Lula da Silva il mio interlocutore. L’altro, quell’ex capitano dell’esercito che siede al posto suo al Planalto, è un impostore.

Ecco, in libera traduzione, il dito che papa Bergoglio ha ficcato nell’occhio alla destra americana che tanto detesta (ricambiato). L’ha fatto con la sfrontatezza, la determinazione e il coraggio che solo un peronista militante anni Sessanta può avere.  I collaboratori di Lula non stanno nella pelle. Abbiamo vinto per “goleada”, sussurrano. Raccontano di un “entusiasta Alberto Fernandez”, il presidente argentino, il peronista che ha fatto di tramite per l’incontro (disponibilità chiesta e data dal Vaticano in 24 ore, un record). È stato lui, Fernandez, a dire d’aver parlato con il Papa di un incontro con Lula mentre il pontefice si lamentava con lui delle guerre giudiziarie che vede in corso per distruggere gli avversari. L’incontro con queste modalità (Bolsonaro l’ha tentato mille volte, invano) è una condanna papale implicita della rivoluzione per via giudiziaria che ha raso al suolo la politica brasiliana. L’entourage di Lula gongola. Mai era suonato uno schiaffo più forte al golpe bianco che abbiamo patito, dicono, con i processi usati al posto dei carri armati.

Perché schierarsi dalla parte di Lula è schierarsi dalla parte di un perdente, pluricondananto, fatto fuori dalla campagna elettorale del 2018 con un arresto clamoroso mentre l’ex presidente era dato, da tutti i sondaggi, come il favorito al primo turno. I precedenti della benedizione bergogliana c’erano tutti. “A Luiz Inácio Lula da Silva con la mia benedizione, chiedendoti di pregare per me, Francisco”, si legge nel messaggio mandatogli tempo fa.  A maggio il Papa aveva inviato una lettera a Lula in prigione. “Il bene vincerà il male, la verità supererà le bugie e la salvezza supererà la condanna”, c’era scritto.  D’altra parte ormai il pentolone della Mani pulite brasiliana s’è scoperchiato. È stato drammaticamente smascherato l’ex giudice Sérgio Moro – attuale super ministro della giustizia, tuttora incerto se candidarsi alle prossime presidenziali o se farsi nominare membro al Tribunale supremo dal presidente Bolsonaro che non sarebbe tale se lui, da magistrato, non gli avesse tolto di mezzo Lula da Silva, firmando un mandato d’arresto a favor di telecamera. Intanto i sostenitori della guerra politica per via giudiziaria, in Brasile e pure qua, seguitano a sostenere che se un condannato è tale una ragione ci sarà. Che se Lula è stato condannato, qualcosa avrà pur fatto. Nonostante non si sia formata uno straccio di prova in Aula.

Sérgio Moro invece, sputtanato da un’operazione di spionaggio che l’ha sbeffeggiato tirandogli giù la maschera, sembra non riprendersi ancora dalla diffusione degli screenshot del suo telefonino. Incredulo che la segretezza delle sue conversazioni sia stata illegalmente violata. Da un hacker, dal lavoro di intelligence di chi chissà chi, non si sa.  Ma come, da giudice giuri di voler raddrizzare la schiena al Brasile usando la legge e nel frattempo ordini le mosse da compiere ai pm, con i quali Costituzione e codice penale ti vietano di collaborare? Gioisci con il responsabile della pubblica accusa per i guai che stai procurando al principale imputato (questo rivelano le conversazioni diffuse) di cui parli con odio come di un tuo nemico personale? Ti scambi complimenti col pm per l’efficacia dell’operazione, gli indichi passo passo gli indizi da raccogliere? E non ti preoccupi nemmeno di fare attenzione a ciò che gli scrivi via chat? Può succedere, quando un Paese si mette nelle mani dei magistrati. Succede, se si lascia stracciare il Diritto in nome della Legge.