Stiamo facendo troppo chiasso. C’è un gran clamore su questa faccenda “Napoli Campione d’Italia“. Dipende dal fatto che il calcio oggi è per taluni solo quel grande affare che è e a qualcuno il business fallito per quest’anno non è andato giù, così se la prendono con lo straripante folklore partenopeo. Stiamo facendo troppo chiasso. Dicono. Dicono che se abbiamo tanto bisogno di festeggiare una vittoria calcistica è perché in fondo siamo degli sconfitti nella vita. Sempre ultimi, sempre il Sud del Sud, la periferia degli altri, gli inascoltati e così l’esultanza per una “cosa da nulla” si moltiplica all’infinito nel nostro immaginario. Dicono.

Ma si sa, i napoletani hanno, anzi abbiamo perché chi scrive è nata a Napoli, entusiasmi estremi, forse perché estreme sono le tragedie che la città ha vissuto e dalla quale è sempre uscita con le proprie forze, sola. Hanno detto altresì che siamo, come al solito, dei provinciali a enfatizzare così tanto uno scudetto. Altri lo hanno “vinto” per ben 36 volte di cui 9 consecutivi. Ho letto e sentito tanto sul tricolore che sta per arrivare: il terzo, solo il terzo, una fatica ciclopica, noi eterni David contro spietati, giganteschi Golia abituati a ogni genere di vittoria. Hanno anche scritto, chiunque e ovunque che proviamo un odio smisurato per le altre squadre. Ci piace “sfottere” questo sì, l’ironia ma anche l’autoironia ce l’abbiamo nel sangue, non resistiamo né all’una, né all’altra. E però se parliamo di odio forse, allora, dovremmo coniare un nuovo termine per definire quel sentimento che ci augura una morte per combustione vulcanica quasi ogni giorno.

Eppure, noi con quella eterna filosofia del riso che se ne sta spaparanzata nel nostro dna, magari anche volgare, a tratti spinta, abbiamo iniziato a invocare per primi il Vesuvio. E magia… ha portato bene! Allora è tutto vero, siamo esagerati, scontati, provinciali, spudorati, banali, folli, un po’ cialtroni (come la vulgata popolare pare ci desideri e ci pretenda) e pure frustrati. Lo siamo perché, ed è difficile raccontarlo, in questi vicoli che attraversano e spaccano la città, Maradona è come Dio, la maglia azzurra è una seconda pelle e oggi l’abito della festa più bella e la sconfitta sarebbe un lutto nel cuore, che pure accetteremmo però, come abbiamo accettato tutto quanto la Storia nostra e degli altri ci ha imposto nel tempo. Sì. È esattamente così. Ed è vero che stiamo facendo un chiasso enorme, da due mesi, mica da ieri. Ma è bella la città tutta vestita a festa! È tutta un cielo! È o non è uno spettacolo l’azzurro che inonda ogni quartiere? Diciamolo, lo è. E diciamo pure un’altra cosa: “È succiess” (è successo, ndr). È una delle tante frasi che campeggia sugli striscioni coloratissimi che si danno la mano da un balcone all’altro.

È da 33 anni che questa città lo aspettava. Lo scudetto. Bramato. Sacro. Venerato. Desiderato, e innominato fino a qualche tempo fa, un po’ per non sciupare il senso, un po’ per prevedibile scaramanzia. Amato sì, come la donna più bella, come l’amante che ti fa perdere la testa, che ti cancella la memoria degli affanni. E lo so, inciampare nella retorica e cascare sui luoghi comuni è facilissimo se si prende carta e penna e si scrive di Napoli e scudetto, ma per una volta lasciateci essere pure retorici. Solo per una volta. “Solo per te”. Per qualcosa che ci ha corretti nella nostra atavica abitudine a perdere. Questa spropositata celebrazione è per quel Dio del calcio che ci ha protetto e ci protegge ancora, per quel Diego Armando Maradona che risollevò una città dopo tutto il dolore e il dramma di un terremoto che ci valse l’appellativo di “terremotati” con quel suo nuovo significato nel senso più dispregiativo, ideato apposta, per quelli che invece erano protagonisti di una tragedia immane. E sì, abbiamo esagerato con le bandiere, sono a centinaia, migliaia. Abbiamo esagerato con slogan e scritte su altre migliaia di striscioni che avvolgono la città.

È la cifra di quel pathos di matrice greca che è inciso nel nostro codice genetico è ci fa omaggiare lo spirito dionisiaco della vita coniugato al culto dei defunti: “o no’ ‘e che ti si pers”. Tradotto per chi non mastica la nostra lingua: nonno, cosa ti sei perso. Perché il pensiero in questo evento storico va anche a chi non c’è più e non ha potuto assistere a questa affermazione da mitologia, la marcia trionfale e pazza di una squadra di giovani che sale sul tetto di Italia e di un popolo tutto che si arrampica sul gradino più alto del podio. Per una volta. I napoletani porteranno allo stadio due bandiere, una delle due è per quella persona cara che non c’è più e che si è persa lo spettacolo di una città in delirio, della pazza gioia, della grande bellezza, di questo scudetto. E la città si ama forte, si abbraccia. Un abbraccio come per dire: stringiamoci nel giorno del sogno. Non ci “disuniamo” noi. Abbiamo una storia da raccontare. E lo sappiamo bene che il sogno non è ancora diventato realtà e sappiamo pure che dal sogno ci sveglieremo e riprenderemo a confrontarci con quei problemi che nessuno mai ci aiuta concretamente a risolvere. Certo la festa è stata rovinata, quella di domenica scorsa, ma noi siamo pazienti, onesti nel nostro furore di voler festeggiare e così, rimandiamo, allunghiamo l’attesa, dilatiamo il tempo del piacere che ci divora, come baccanali non ancora completamente ebbre. “Amm aspettat 33 anni, che fa nu juorn e chiù”. Abbiamo aspettato più di trent’anni, cosa vuoi che sia qualche giorno in più.

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Giornalista napoletana, classe 1992. Affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.