Freud sosteneva che esistessero tre mestieri “Impossibili”: governare, insegnare e psicanalizzare. Qui in Italia, con la psicanalisi messa nel dimenticatoio e con una classe politica di maggioranza composta in parte da giovani sulla trentina, diventare insegnanti di ruolo sembra ormai un’ambizione più irraggiungibile delle altre. Se infatti la Ministra dell’istruzione Lucia Azzolina non ha ancora spento quaranta candeline, sono moltissimi gli/le insegnanti trentenni e quarantenni ancora stretti nella morsa del precariato. Con i concorsi banditi questa estate e previsti, Covid permettendo, in autunno, il Ministero ha promesso di risolvere, finalmente, l’annosa questione del precariato nella scuola, ma non mancano polemiche e critiche mirate ad un sistema di formazione e reclutamento del personale docente che nell’ultimo decennio ha subito dolorosamente il colpo del susseguirsi di riforme confuse e contraddittorie, che hanno ottenuto il risultato poco lusinghiero di consolidare il precariato piuttosto che di combatterlo, e di abbandonare a se stessi migliaia di neolaureati, privati per molti anni della possibilità stessa di ottenere in qualsivoglia maniera la tanto agognata abilitazione all’insegnamento.

Abbiamo ascoltato la storia di Rosa e Federica, due giovani insegnanti precarie che come tante/i altre/i lavorano da anni nella scuola, e che con il nuovo concorso e con l’aggiornamento delle graduatorie provinciali (che vanno a sostituire le graduatorie di istituto) rischiano di essere addirittura penalizzate. Rosa lavora da anni a Pistoia. “Ho fatto domanda per le vecchie graduatorie di terza fascia nel 2014, ho iniziato pensando che fosse solo un’esperienza di passaggio, mentre sono oramai 6 anni che lavoro nella stessa scuola, sulle cattedre di francese e spagnolo”. La supplenza, come dire, è oramai il suo lavoro, ma con l’avvio delle nuove graduatorie provinciali corre addirittura il rischio di restare fuori. Le graduatorie su base provinciale creano infatti una disparità strutturale tra le province: a Pistoia, a parità di classe di concorso, ci sono meno cattedre che nelle altre città. “Noi ci ritroviamo adesso, dopo anni di lavoro, e in un contesto come quello dell’emergenza Covid, a dover studiare duramente: sto preparando contemporaneamente il concorso straordinario abilitante e quello per il ruolo”.

Il problema, a monte, è che negli ultimi 6 anni il Ministero non ha previsto nessun sistema ufficiale per conseguire l’abilitazione all’insegnamento, e a partecipare ai nuovi concorsi saranno insegnanti con esperienza, titoli, servizio e formazione molto diversificati. C’è chi ha fatto il TFA 2014 (Tirocinio Formativo Attivo, parto folle della “buona scuola” di renziana memoria), chi ha cumulato anni di servizio senza però essere abilitato, e chi ora potrà partecipare al concorso, senza titoli di servizio né abilitazione, previo conseguimento dei crediti formativi in materie psicopedagogiche. Un vero guazzabuglio, in cui i precari – parliamo di professionisti che lavorano talvolta da molti anni nella stessa scuola- rischiano di avere la peggio.

Federica inizialmente non voleva entrare nel mondo dell’insegnamento, visto come un ambiente lavorativo confusionario e di difficile accesso. “Due anni fa però sono stata fortunata, ottenendo una supplenza dalla terza fascia in una scuola in cui mi sono trovata benissimo e dove fortunatamente sono stata in seguito riconfermata. Il concorso straordinario tuttavia esige tre anni continuativi di servizio, ovvero 180 giorni, ma per me come per molti altri docenti, il contratto arriva fino al termine delle lezioni, escludendo il periodo degli scrutini per il quale siamo contrattualizzati a parte”. Chi non riesce a prendere una cattedra annuale, insomma, rischia di perdere il conteggio e la valorizzazione degli anni di servizio e quindi di non abilitarsi né entrare in ruolo.

Negli ultimi anni, sottolineano Rosa e Federica, lo Stato ha abusato del precariato esistente illudendo chi lavora costantemente e tiene in piedi la scuola in Italia. Con buona pace di Freud, che riteneva la formazione degli insegnanti come problematica e, in ultima istanza, mai garantita da qualsivoglia salvacondotto teorico (come per la politica, l’attitudine e la propensione all’insegnamento attengono ad abilità e sensibilità personali difficilmente standardizzabili), la situazione odierna in Italia prevede piuttosto un accumulo di titoli, corsi d’aggiornamento o master di perfezionamento, che non solo non aiutano concretamente a consolidare un sistema di verifica delle prerogative d’accesso alla professione, ma rischiano sempre più spesso di rivelarsi “pezzi di carta”, spesso ottenibili con sistemi al limite della legalità, con università private e istituti di formazione che non rinunciano a diventare “titolifici”, utili per far punteggio, ma che poco hanno a che fare con l’attestazione delle professionalità e delle competenze che un mestiere complesso come quello dell’insegnante richiederebbe. Quello delle abilitazioni e delle pratiche professionali è una problematica che non tocca solo il mondo della scuola. Lo scollamento tra percorsi di laurea e abilitazione alle professioni crea continui disagi e squilibri e invita ciascun ambito professionale a riflettere circa la necessità di ripensare radicalmente i percorsi di formazione in un’ottica maggiormente rivolta al mondo del lavoro.