"Una vita liberata" di Roberto Ciccarelli
Se il capitalismo diventa una seconda natura
Il “neoliberalismo – scrive Roberto Ciccarelli nel suo ultimo libro Una vita liberata. Oltre l’apocalisse capitalista (Derive e Approdi, 2022) – indica una politica più ampia del neoliberismo. Si basa su una rivoluzione antropologica che investe la formazione della soggettività, i suoi rapporti con lo Stato, il mercato, le istituzioni e le norme (…) un progetto pedagogico e spirituale di trasformazione della mentalità e dei comportamenti dell’essere umano (…) il cui scopo è la rifondazione della cittadinanza in senso imprenditoriale e la sussunzione di ogni aspetto biologico, relazionale e intellettuale della vita alla logica della valorizzazione capitalistica”.
Quando un sistema dura così a lungo, è inevitabile che quelli che sono stati gli effetti di una organizzazione del mondo, appaiano inalterabili, quasi fossero una “seconda natura”. Così è stato per il patriarcato, così è oggi per un modello economico, sociale e politico che sta colonizzando ogni aspetto dell’esistenza. Nella figura del “capitalista umano” il dominio maschile e tutte le forme di violenza, di ingiustizia e di sfruttamento che ne hanno segnato la storia, sembrano aver toccato un acme e al medesimo tempo un punto di non ritorno. La fine della separazione tra il destino di un sesso e dell’altro e di tutte le polarizzazioni che vi hanno fatto seguito – cultura, sentimenti e ragione, individuo e società, ecc. -, anziché muovere verso la ricerca di “nessi” che vi sono sempre stati tra parti inscindibili dell’umano, vede nell’accorpamento di Io e mondo un connubio perverso, apparentemente senza via di uscita, di eclissi della storia, depressione e onnipotenza.
La fine di “una” storia si va a confondere con la fine di “tutte le storie”, un’apocalisse senza resurrezione, ma, ed è questo l’aspetto più insidioso dell’“apocalisse capitalistica”, anche una “rivoluzione – conservazione”, un “capovolgimento nell’opposto” , che mira a prevenire ogni possibile cambiamento e uso alternativo della vita. “La contro–rivoluzione neoliberale è il condensato delle forze che si oppongono a chi cerca una discontinuità reale rispetto ai torti e alla violenza, che vogliono riprodurre l’ordine dell’ingiustizia legittimata come naturale e come tale insuperabile (…) La paura della fine del mondo ha come fine rendere più docili i corpi e le menti (…) impedire ogni resistenza, lasciare gli esseri umani nel terrore”. Aver visto nella “umanizzazione del Capitale” il rischio di una patologia mortale e, nel medesimo tempo, la possibilità di una “vita liberata”, quella “potenza di essere” e riscoperta di energie che viene dopo una guarigione, è l’aspetto più interessante dell’analisi di Ciccarelli.
Il “postumo” è il venire dopo una catastrofe, ma anche il “risultato di una resistenza della vita alla morte e della creazione di una potenza dell’agire e del pensiero (…) il momento aurorale di un’esistenza”. Il “desiderio dissidente” , come scriveva già Elvio Fachinelli rispetto ai movimenti antiautoritari del Sessantotto, è “inevitabile e imprevenibile”. Lo stesso, si può dire per Ciccarelli, della “forza lavoro”, quella “facoltà delle facoltà” che accomuna tutti gli umani, al di là della sua riduzione a merce. La pandemia del Covid ha reso con particolare evidenza che cosa significa “sopravvivere” e vedere invece nel crollo di tante certezze la necessità di ripensare quella che è stata fino a quel momento la “normalità”. Ma se la “nuova vita” non cessa di farsi strada ogni volta dall’interno di un sistema che la contrast appropriandosene in modo distorto, resta comunque la vischiosità legata al radicamento dei modelli dominanti nel corpo e nei pensieri di ogni singolo individuo. Se riconoscere la profondità del male è l’unico modo per aprirsi all’alternativa, mai come oggi l’attenzione va portata su quell’altrove della politica che è stata considerata la storia personale, la soggettività, riserva di creatività ma anche materia di facili catture e di antichi pregiudizi.
Paradossalmente, è proprio riconoscendo il “colono” che è dentro di noi – che si tratti del sessismo, del razzismo o del classismo, che si può parlare del processo rivoluzionario come di una “liberazione” portata alle radici dell’umano. La “schiavitù volontaria” – nella coraggiosa e sorprendente considerazione di Ciccarelli – , diventa “libera obbedienza” a cui l’individuo liberale rivolge il proprio desiderio. “Confondere il tremendo lavoro di obbedire liberamente con l’essere schiavi, significa liquidare la principale differenza tra la soggettività contemporanea e quella precedente (…) L’individuo interiorizza il comando e accetta i suoi obiettivi perché condivide con i dominanti un principio di realtà così assoluto da rimuovere ogni resistenza (…) La peculiarità di questa strategia sta nell’agire sul terreno della libertà e non solo della coercizione”.
Di uno “scambio” accettato per necessità si può parlare a proposito di ogni forma di dominio, a partire dall’originaria sottomissione e colonizzazione del sesso femminile. Che altro potevano fare le donne per sopravvivere, ma anche strappare un qualche potere e piacere, se non incunearsi dentro quei ruoli e quelle identità che le hanno confinate fuori dalla storia, identificate con una sessualità al servizio dell’uomo e una maternità come obbligo procreativo? Alla complicità estorta per non morire va riconosciuto l’ambiguo annodamento di bisogno e desiderio, di resa e resistenza, adattamento e ribellione. Dove rinascerebbero altrimenti la spinta al cambiamento, i tanti “postumi” e le altrettante rinascite che ha conosciuto la storia? Resistere in un percorso che porta alla rassegnazione e all’adattamento richiede un lavoro su se stessi che impegna la vita nella sua interezza e nella sua singolarità. La presa di coscienza, diceva Carla Lonzi, è un passaggio che le donne devono fare “ad una ad una”, ma che ha bisogno di una pratica collettiva quale è stata per il femminismo l’autocoscienza. Un problema analogo è quello di una liberazione che oggi “connette e trasforma la lotta politica delle donne in tutti gli ambiti dove sono oggetto di violenza e sfruttamento: la razza, la classe, il genere.
“La classe come soggetto politico è la capaci tà la capacità di organizzare una molteplicità sociale (…) Si continua ancor oggi a credere che le lotte per la giustizia climatica, contro il sessismo o il razzismo, e le altre forme di potere abbiano una centralità maggiore rispetto alla lotta di classe (…) La classe è politica quando abolisce la società divisa in classi e, attraverso una lotta di classe, abolisce se stessa in quanto classe degli sfruttati, dei subalterni, degli oppressi”. Riemergono, in questa originale analisi di un tempo che sembra fatalmente avviato al suo declino, quelle “esigenze radicali” che, emerse negli anni Sessanta e Settanta come il “reale e il possibile”, erano destinate a ricomparire in una “ripresa” aperta a nuove soluzioni.
© Riproduzione riservata