Due livelli di indagine
Se la giustizia si fa storia nel deserto delle prove: Dell’Utri e le accuse fantasiose
La brama di un’investigazione evidentemente inesausta non può giustificarsi più, senza un grammo di nuove emergenze – facendo leva sulla gravità dell’ipotesi, e cioè la mafia, le stragi, la discesa in campo a copertura della genesi criminale
Investe due livelli di indagine la notizia del sequestro preventivo disposto sui fondi (una decina di milioni) di Marcello Dell’Utri. Per un verso si tratterebbe della violazione dell’obbligo di comunicazione dei flussi che competerebbe a Dell’Utri in quanto destinatario della sentenza che lo ha ritenuto responsabile di concorso esterno in associazione mafiosa. È la parte meno inquietante della notizia.
Si può infatti ragionare sulla fondatezza e ragionevolezza di un simile provvedimento, che insiste perfino su denari riferibili in realtà alla moglie di Dell’Utri, in favore della quale sarebbero stati distratti per un disegno elusivo. Ma tant’è: se c’era quell’obbligo di comunicazione, se comprendeva anche i beni sottoposti a sequestro (ci sarebbero anche prestiti infruttiferi), e se effettivamente Dell’Utri non l’ha rispettato, la faccenda apparterrebbe a un rango di irregolarità poco qualificata, per quanto riguardante somme molto ingenti.
Solo che, appunto, la notizia si carica di tutt’altro significato e investe un livello tutto diverso di indagine quando si apprende che l’accusa pubblica indugia sulle ragioni che avrebbero portato a Dell’Utri quei denari: e ipotizza che costituissero il prezzo pagato da Berlusconi per ottenere atteggiamenti compiacenti di Dell’Utri in sede processuale e per ripagarne i traffici con la criminalità organizzata.
Ma si va ancora più in là, alla luce di quel che si leggeva ieri: il fatto che l’effettiva ragione delle erogazioni fosse quella, e cioè una remunerazione dei silenzi e dei servizi resi da Dell’Utri nei suoi abboccamenti con Cosa Nostra, “corrobora l’ipotesi del suo coinvolgimento nel concorso in strage”. Insomma quei soldi finanziavano l’organizzazione degli attentati. Abbiamo il dovere di prendere molto seriamente queste ruminazioni. Se infatti esse producono questi frutti in un deserto di prove circa la compromissione di Berlusconi e di Dell’Utri con la stagione stragista della criminalità organizzata, e anzi al cospetto di provvedimenti di giustizia che hanno via via escluso l’esistenza perfino di indizi a supporto di quell’ipotesi, significa che il salto di qualità è finalmente compiuto.
Significa che per gemmazione giudiziaria e, questa volta, sulla scorta di un sequestro disposto per ragioni del tutto diverse, può impiantarsi una contro-verità che smuove la salma di Berlusconi e la mette nella posa di burattinaio in cui per trent’anni la giustizia non era riuscita a immobilizzarlo. Prendere con la dovuta serietà queste fantasie inquirenti significa chiedere a chi le formula di spiegare come, attraverso quali riscontri, in base a quali emergenze di fatto e non romanzesche ritiene di rimpolpare quell’ipotesi.
Perché la brama di un’investigazione evidentemente inesausta non può giustificarsi più – dopo tutto questo tempo e senza un grammo di nuove emergenze – facendo leva sulla gravità dell’ipotesi, e cioè la mafia, le stragi, la discesa in campo a copertura della genesi criminale dell’impero costruito con il concorso dei sodali alla Dell’Utri: si giustifica se si alimenta di fatti, di cose capaci di definire responsabilità percepibili e documentabili. In sede giudiziaria, almeno: nei fumetti e nei talk show è diverso.
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