Occorre una giurisdizione che limiti lo strapotere dei Pm
Separazione tra giudici e Pm necessaria o non si risolve nulla
Il tema della separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri è uno di quelli più divisivi in materia di giustizia. L’opinione contraria si è, da ultimo, raccolta intorno ad una tesi: la separazione delle carriere avrebbe la conseguenza esiziale di allontanare definitivamente il pubblico ministero dalla cultura della giurisdizione. Viceversa, le storture nella condotta di alcuni pubblici ministeri andrebbero combattute rafforzando, nei magistrati addetti alle procure, la cultura della giurisdizione. Così, da ultimo, su questo giornale, Guido Neppi Modona il 30 aprile.
Questa tesi ha consentito di battersi contro la separazione delle carriere anche a coloro che sono critici sulla concreta gestione del potere da parte di alcune procure. Alberto Cisterna, che espressamente parla di “spezzoni di inquirenti che guerreggiano per le indagini da fare o per quelle da evitare a seconda dei casi o per la visibilità mediatica” (su questo giornale il 22 maggio), afferma tuttavia che separare le carriere significherebbe ”isolare il pm dalla giurisdizione per consegnarlo a sé stesso o peggio in altre mani”, consentendo così “la costituzione di una enclave libera da ogni vincolo”. D’altra parte, sempre secondo Cisterna, il pericolo di condizionamenti sarebbe stato evitato attraverso la già avvenuta separazione delle funzioni.
La tesi è certamente raffinata, ma non coglie il cuore del problema da risolvere. In un sistema nel quale, come in Italia (sulle cui storture si può leggere il bel volume di Giuseppe Gargani, In nome dei Pubblici Ministeri), si vuole conservare piena autonomia ed indipendenza ai magistrati dell’accusa, l’unico reale controllo sul loro operato non può che essere quello della giurisdizione. Se i termini reali della questione sono questi, il tema non è allora quello di sperare che la forza dolce della cultura della giurisdizione riesca dall’interno ad indurre i componenti delle Procure della Repubblica a comportarsi correttamente. Esso è, viceversa, quello di fare in modo che la giurisdizione sia forte e che, perciò, sia in grado ci costituire un efficace e penetrante momento di controllo dell’operato dei pubblici ministeri. Gli interessi in gioco sono vitali per la sopravvivenza di una democrazia. Certamente la più gran parte dei magistrati delle Procure della Repubblica è attenta alla salvaguardia di quegli interessi. La loro rilevanza, tuttavia, è tale che non possono essere affidati esclusivamente al soft power di una cultura capace di indurre ad una autolimitazione, ma richiedono l’intervento di un forte meccanismo istituzionale di bilanciamento. L’unicità delle carriere è idonea a garantire il corretto funzionamento di tale meccanismo? La risposta è no. Sia sul piano teorico e sia su quello delle prassi.
Già sotto il profilo teorico, è richiesta al giudice una enorme autonomia morale nel momento in cui gli si chiede di essere terzo rispetto ad una parte che è un collega. Se poi si considera che la comunanza delle sedi, istituzionali e non, in cui si manifestano gli interessi e si sviluppano le aspettative di carriere dei magistrati sono comuni, appare evidente l’esistenza di una commistione nemica dell’autonomia. ANM, Consigli Giudiziari e Consiglio Superiore della Magistratura sono sedi nelle quali vita quotidiana, battaglie ideali, aspirazioni di carriera si intersecano quotidianamente, rendendo inevitabile il formarsi di un corpo unico, nel quale le Procure, più strutturate e con alle proprie dipendenze la polizia giudiziaria, finiscono con avere inevitabilmente un ruolo guida. È significativo, del resto, che negli ultimi trenta anni il ruolo di Presidente dell’ANM sia stato, quasi sempre, ricoperto da un magistrato del pubblico ministero.
Se, poi, si passa a considerare quanto il ruolo guida assunto dalle Procure della Repubblica abbia condizionato anche ai massimi livelli la giurisdizione, basta fare due esempi. Durante Tangentopoli, la procedura che si ripeteva era spesso identica: arresto con conseguente confessione e chiamata in correità di altre persone in cambio della libertà. Nei successivi processi spesso i cd. pentiti si avvalevano della facoltà di non rispondere ed i verbali delle chiamate in correità erano acquisiti al processo. Si è posto, dunque, il problema se potessero costituire prova queste chiamate in correità, rispetto alle quali la difesa non aveva avuto alcuna possibilità di contraddittorio. La lesione del diritto di difesa era evidente. Eppure, la Corte Costituzionale (n. 361/1998, rel. Neppi Modona) ha affermato la legittimità di quel modo di procedere, poi invece negata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. È stato addirittura necessario introdurre il nuovo art. 111 cost. per impedire che le condanne potessero basarsi sulle “confessioni” ottenute dal pubblico ministero, senza che la difesa neppure avesse la possibilità del controesame.
Restando, ancora, sul piano delle giurisdizioni più alte, è esperienza comune che la Corte di Cassazione ritiene spesso doveroso “tutelare” le indagini svolte dai pubblici ministeri e, in questa prospettiva, quali che siano i criteri individuati dal legislatore come condizione per l’adozione della misura cautelare della carcerazione, si arrocca sulla necessità di una valutazione “dinamica” della serietà degli indizi. Che significa che qualsiasi elemento, anche il più labile, è buono per giustificare in una prospettiva “dinamica” la carcerazione preventiva. Se questa è la capacità di condizionamento che l’accusa ha sulle giurisdizioni superiori, ci si può facilmente immaginare quale potenza possa esprimersi nelle giurisdizioni inferiori, nelle quali per giunta “la colleganza” ha una maggiore pervasività.
Ecco, allora, che la questione non è quella di tenere il pubblico ministero immerso nella cultura della giurisdizione affinché si autolimiti. Occorre, viceversa, creare le condizioni affinché la giurisdizione costituisca un momento di controllo rigoroso e non condizionabile della attività del pubblico ministero. Ed ecco perché serve la separazione delle carriere.
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