Gli effetti collaterali
Le carriere di Pm e giudici sono di fatto già separate, non separiamo i concorsi
Nella confusione che agita i cieli della giustizia italiana ogni proposta sembra plausibile e ogni soluzione sembra quella giusta. Il caos legittima sortite e improvvisazioni che hanno quale unico obiettivo la rimodulazione del potere giudiziario e la ridefinizione dei suoi ambiti. È come se sul ring ci fosse un pugile suonato che non riesce a schivare i colpi dell’avversario e, qualche volta, si ha l’impressione che a menare sia pure l’arbitro. L’idea di imporre, a partire dal prossimo concorso, ai giovani candidati alla toga di optare per sempre tra le funzioni di giudice e quelle di pubblico ministero può anche entusiasmare i fautori della separazione delle carriere, ma è a tutti chiaro che si tratta di cose che hanno poco a che fare l’una con l’altra. Già da molto tempo, da troppo tempo, infatti i transiti di funzioni tra giudici e pm e viceversa sono ridotti all’osso. Una norma di qualche anno or sono consente a un giudice di Roma di poter divenire un pm in qualunque procura della Repubblica, ma che non sia nel Lazio; così come per un pm di Firenze è possibile accedere alle funzioni giudicanti in un qualsiasi tribunale a patto che sia fuori dalla Toscana. L’incidenza sulla vita dei magistrati è evidente e, quindi, scoraggia scelte di questo genere.
Le funzioni giudiziarie sono in via di fatto e in gran parte separate da un pezzo e la promiscuità delle funzioni è solo un residuo di altri tempi, con magistrati di ben altra statura (da Falcone a Borsellino, da Maddalena a Macrì) che facevano di questa “doppia” appartenenza alla giudicante e alla requirente un vanto e un titolo nella propria carriera. La cosa peggiore che possa accadere in Italia in questo momento è proprio quella di allontanare per sempre un giovane magistrato dalla cultura della giurisdizione, dalla fatica del decidere, dalla sofferenza del verdetto, per consegnarlo – praticamente inerme – alle funzioni inquirenti, ossia nelle mani o di colleghi di lungo corso a trasparenza variabile o della polizia giudiziaria che vanta ben altre, molto più collaudate, esperienze e più efficaci moduli organizzativi. Sia chiaro, non tutte le procure si somigliano. Ci sono uffici in cui superbi procuratori assicurano trasparenza e serenità, ma non accade sempre e non accade dappertutto. Dovrebbe essere evidente a tutti, ma proprio a tutti, che l’attuale crisi del sistema si concentra e si perimetra interamente nell’alveo delle procure della Repubblica. Da dieci anni almeno si assiste a scontri durissimi tra magistrati che esibiscono tutti una lunga militanza nelle file del pubblico ministero e che si sono tenuti sempre distanti dalla logica della giurisdizione, intesa come decisione o perché in buona fede assaliti da una mistica dell’investigazione o perché, in modo meno encomiabile, fortemente ancorati ai propri privilegi.
Spezzoni di inquirenti che guerreggiano per le indagini da fare o per quelle da evitare a seconda dei casi o per la visibilità mediatica o per la conquista di uno scranno nella scalata alla piramide del potere investigativo. Il tutto all’ombra di un Csm che, ben che vada, è sempre più preoccupato ogniqualvolta deve metter mano in regolamenti di conti dagli effetti imprevedibili e che tenta a fatica di preservare la credibilità dell’istituzione. In fondo è in questo che si esaurisce e si risolve il caso Palamara, non meno della lotta intestina milanese sulle dichiarazioni dell’avvocato Amara. A guardarli dall’esterno, con il distacco possibile, ma senza pretesa di alcuna oggettività, possono individuarsi alcune linee di continuità e ben poche fratture tra i due casi. I protagonisti dei due affari che stanno scuotendo dalle fondamenta la magistratura italiana appartengono sempre al medesimo cluster: ci sono alcuni pubblici ministeri, alcuni personaggi sospetti, alcuni giornalisti.
Gli obiettivi perseguiti sono sempre gli stessi: screditare gli avversari, conquistare credibilità mediatica, occupare posti quando non sovvertire il funzionamento del Csm (accusa, questa, che circola in relazione a entrambe le faccende). Le conseguenze sono le medesime: magistrati del pm colti con il dito nella marmellata a ordire o sull’orlo di una crisi di nervi o a caccia di corvi e cicale e con il dubbio che l’azione penale sia solo – in qualche caso almeno – lo schermo per lanciarsi in battaglie a tutto campo. Ci mancava nel pantheon solo il pentito di turno e, in verità, anche questa casella della perfetta partitura è stata riempita grazie al profondo ripensamento del dottor Palamara e alle scelte un po’ naif dell’avvocato Amara.
Ora correre il rischio di consegnare giovani laureati, e per sempre, a questa turbolenta e, a tratti, infida macchina da guerra può sembrare coerente alla luce di altri, più complessivi propositi (come quello di separare le carriere), ma preso in sé è un progetto da rimeditare e profondamente. Non tanto perché potrebbe avere un esito infelice in sede di voto parlamentare, quanto perché avalla la preoccupante involuzione della magistratura italiana che è in atto (con la separazione delle funzioni) e che sta producendo guasti incalcolabili. Sono state chiare le prime dichiarazioni del presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia sin dal suo insediamento: non si può isolare il pm dalla giurisdizione per consegnarlo a sé stesso o peggio in altre mani perché sarebbe in discussione il gradiente della democrazia.
Un’impostazione quella “autonomista” o “sovranista” che, si badi bene, era ed è spesso gradita ad alcuni ras delle procure della Repubblica che non stanno a valle, ma – come il lupo di Esopo – piuttosto a monte dello scorrere delle acque della giustizia italiana e che – attraverso le saldature di polizia e gli asset mediatici evocati ne Il Sistema – mantengono sotto scacco l’intero plesso istituzionale della magistratura italiana e che vedrebbero di buon occhio la costituzione di un’enclave libera da ogni vincolo.
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