Se negli Stati Uniti, dove esiste una reale solida inossidabile separazione tra i poteri dello Stato, il presidente Biden ha potuto istituire una commissione di inchiesta sulla Corte suprema, potrà ben il Parlamento italiano votare un istituto analogo sui rapporti tra la magistratura e la politica, o no? Il quesito è posto, come domanda retorica, dal giudice emerito della Corte Costituzionale Sabino Cassese, che fa propria, arricchendola di argomenti che discendono direttamente dalla sua competenza “professionale”, la proposta di legge dell’intero centrodestra di un anno fa, cui si sono ora associati i deputati di Italia Viva e Azione.

Dopo un vero braccio di ferro con quelli che si possono ormai definire gli ambienti più conservatori del Parlamento in tema di giustizia, cioè Pd, Movimento cinque stelle e Leu, i capigruppo dei partiti sostenitori della necessità di creare una commissione speciale su politica-giustizia, hanno ottenuto che per lo meno si metta in calendario la proposta. Se ne parlerà nelle commissioni giustizia e affari costituzionali ai primi di maggio. Sabino Cassese ha dato intanto una sciabolata di quelle che non consentono replica agli argomenti più banali e superficiali dei partiti di sinistra. Tralasciamo le proteste degli indignati Cinque Stelle, che con Travaglio e l’ex magistrato Giancarlo Caselli parlano di un torbido tentativo di “regolamento dei conti”, una sorta di vendetta di una classe politica, che si suppone sempre impura e corrotta, che cercherebbe di mettere la mordacchia alle toghe. E diamo per scontato anche l’argomento un po’ trito e ritrito di un altro magistrato, Nino di Matteo il quale, pur dicendosi in linea generale sempre favorevole a “inchieste e approfondimenti in sede parlamentare”, non solo ritiene la sede naturale per questo tipo di indagini il Csm (e in teoria avrebbe ragione) ma paventa sempre l’attacco all’autonomia e indipendenza della magistratura. Mai che si parli di imparzialità. Il discorso è sempre lo stesso: giù le mani dalle toghe.

Ma quel che preoccupa è che la sinistra intera, cioè il Pd e Leu, faccia proprie queste tesi così difensive, così fuori dal tempo e dallo spazio, come se nel settore giustizia non fosse successo proprio niente in questi anni, da mostrare come in questa parte intera della politica non ci siano neppure più le contraddizioni che un tempo erano terreno di confronto tra garantisti e giustizialisti. Quando si sente un deputato del Pd come Michele Bordo, una carriera tutta nel partito fin dal Pci in cui entrò sedicenne, dire che non si è mai visto un potere dello Stato che indaga su un altro, e che c’è il sospetto che Forza Italia, Lega e FdI vogliano rifare i processi dell’ultimo ventennio, vien voglia di rispondergli “magari!”, pur sapendo che non è quello il compito della commissione d’inchiesta. Ma la cosa migliore è fargli rispondere da Sabino Cassese. E anche dal Presidente degli Stati Uniti, uno come Biden che dovrebbe piacergli, si suppone.

Che sia legittimo da parte di ciascuna Camera poter disporre inchieste su temi di pubblico interesse lo dice a chiare lettere l’articolo 82 della Costituzione. E qualcuno potrebbe negare che il rapporto tra la giustizia e la politica rientri tra gli argomenti di pubblico interesse? E per quale motivo un potere dello Stato come il Parlamento non dovrebbe poter svolgere indagini su un altro, visto che la Magistratura lo fa continuamente nei confronti di deputati e senatori? Viviamo momenti in cui pure se la classe politica non è alle stelle nel gradimento dei cittadini italiani, lo sconcerto suscitato dalle notizie uscite dall’affaire Palamara, con le toghe che appaiono ogni giorno interessate più a tessere trame e complotti e a occuparsi più della propria carriera che non di garantire una giustizia giusta ai cittadini, fa sì che giudici e pubblici ministeri non godano più di grande stima. Siamo tornati ai tempi di Enzo Tortora e di un referendum sulla responsabilità civile il cui risultato fu poi svilito da una inutile legge che non ha mai fatto tremare nessun magistrato.

Certo, dovrebbe essere il Csm a disporre una bella inchiesta sull’uso politico della giustizia. Ma non solo non ha nessuna intenzione di farla, ma si arrocca nella protezione della specie, dopo aver espulso l’unico corpo estraneo, il reprobo Palamara che ha osato rompere la solidarietà di casta. Grazie a questa serrata autodifesa corporativa e a un’enfatizzazione smisurata del potere dei pubblici ministeri, ci troviamo in una situazione paradossale, per cui mentre l’amministrazione della giustizia è a livelli infimi nell’opinione pubblica, il potere delle toghe, giudicanti o requirenti che siano, appare sempre più smisurato. Un potere ormai disabituato a misurarsi con la competenza e con i risultati. Fa parte della conoscenza ormai di tutti il fatto che la lunghezza dei processi, civili e penali, scoraggia gli imprenditori di altri Paesi dal venire a investire in Italia. E anche –le statistiche sono da film dell’orrore- che quasi nessun magistrato paga per i propri errori o le proprie negligenze. Se un pubblico ministero americano uscisse sconfitto in tutte o quasi le cause, dopo aver fatto perdere tempo e denaro allo Stato, sarebbe immediatamente cacciato. Già ma lì i pm sono in gran parte eletti. Qui sono autonomi e indipendenti. Non devono rendere conto a nessuno e fanno carriera comunque si siano comportati.

E il fatto che i vertici della magistratura vengano nominati dal Csm in base alle appartenenze politiche o di corrente sindacale, non fa parte dell’uso politico della giustizia? E siamo sicuri che certe trascuratezze, certe dimenticanze, certe moratorie concesse a qualche amministratore o parente di leader di partito, oppure al contrario certe accelerazioni quando l’indagato è un politico non gradito, siano così innocenti? Stiamo parlando di un potere che forse non sarebbe cresciuto in modo così smisurato senza il sostegno benevole ed entusiastico del grande circo barnum dell’informazione. Lo abbiamo visto anche nei giorni scorsi. Una commissione d’inchiesta sull’uso politico della giustizia dovrebbe suscitare l’entusiasmo di tutti quei giornalisti che continuamente definiscono se stessi come persone “con la schiena diritta”, che non prendono ordini da nessuno e che si trasformano in cani da tartufo ogni volta che c’è da annusare il marcio. Dovrebbero essere tutti schierati in prima fila a gridare che a loro non la si può fare sotto il naso, che se quel che ha denunciato Palamara fosse vero anche solo in piccola parte, loro vorrebbero vederci chiaro, e vorrebbero subito una commissione d’inchiesta.

Invece: il cinghialone, il cavaliere nero, il truce da una parte, le Sante Toghe dall’altra. In una commistione da Stato etico che sempre più, nelle ordinanze e nelle sentenze così come negli editoriali di direttori virtuosi, confonde il reato con il peccato, mentre i pubblici ministeri d’assalto vanno in cerca di reati da attribuire a soggetti già individuati (il famoso “tipo d’autore”), in nome dell’obbligatorietà dell’azione penale, naturalmente. E in questo quadro desolante, che cosa concludere, che cosa fare? «È consigliabile avviare un’inchiesta parlamentare sul rapporto tra politica e giustizia», suggerisce Sabino Cassese. E noi con lui, non da oggi.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.