Il caso dell'ex leader della lotta armata
Sepolto vivo in carcere da mezzo secolo, il riarresto di Mario Tuti è un’infamia

Revocare qualche minuto diritto carcerario a un vecchio imprigionato da mezzo secolo, senza che il provvedimento restrittivo sia giustificato da documentate ragioni di sicurezza, è già un’infamia inemendabile. Ma farlo, come si vuole con Mario Tuti, ex leader della lotta armata di estrema destra, perché quel sepolto vivo, ormai provatamente innocuo, ha partecipato a un pur discutibile raduno politico, rappresenta un supplemento di ingiustizia che degrada l’ordinamento a un livello di inciviltà vergognosa.
In un sistema decente, il carcere duraturo sarebbe ammissibile solo finché durano condizioni di pericolosità del condannato che sconsiglino di liberarlo, e già questo principio è messo nel nulla quando, al contrario, si assiste all’uso del carcere e alla mancata concessione di qualche parziale soluzione alternativa nel caso di persone certamente non più pericolose.
Ma che le mezze libertà, i piccoli permessi, la riduzione delle durezze detentive costituiscano premi di buona condotta democratica, riconoscimenti di redenzione ideologica, insomma concessioni del potere punitivo che si auto-limita davanti alla rieducazione morale del condannato, ecco, questo può pensarlo soltanto chi ha un concetto dell’umana convivenza anche più barbaro della violenza che pretende di punire.
Il condannato ha il dovere, come chiunque, di non nuocere. Non quello di meritarsi qualche simulacro di libertà coltivando l’idea che piace al giudice di sorveglianza o ai guardiani della democrazia carceraria. Perché se fosse così – ed è angosciante che non si capisca – vorrebbe dire che neppure lo si tiene in prigione per quel che ha fatto, ma per quel che pensa.
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