In questi anni in cui siamo stati travolti dalle sarabande del circo mediatico giudiziario, avevamo un faro che ci faceva sperare che prima o poi ne saremmo usciti: la Corte Costituzionale. Le procure straparlavano, i pm gettavano in pasto all’opinione pubblica, con la complicità dell’informazione, le vite private degli indagati senza ritegno, senza rispetto per i loro cari, e noi guardavamo alla Consulta sapendo che restava un baluardo, un confine non valicabile tra stato di diritto e populismo.

Questa certezza è vacillata il 16 febbraio dopo la conferenza stampa del presidente Giuliano Amato per spiegare i sì e i no ai quesiti referendari. Invece di “far parlare le sentenze” come ci avevano sempre spiegato, il presidente è andato davanti ai giornalisti, come un cittadino qualsiasi, a dire le sue ragioni, negando il diritto di replica ai comitati che in questi mesi avevano raccolto le firme. Ma la botta più grande doveva ancora esserci. Ed è arrivata durante il programma di Giovanni Floris, Di Martedì su La7, che ha visto la partecipazione proprio di Amato, che ha fatto un bel comizio imponendo agli ascoltatori le sue ragioni. Floris glielo ha anche chiesto: non teme polemiche per essere qui? Il presidente della Consulta ha risposto, lanciando il suo programma per il futuro: i cittadini dovranno abituarsi a una Corte che spiega le proprie ragioni.

Ha cioè detto che le parole dell’altro giorno non sono state un incidente ma che d’ora in poi anche l’organo da lui presieduto entra a pieno titolo nella politica show, nelle sentenze usa e getta, fatte apposta non pensando alla Costituzione ma agli ascolti, non al rispetto dei cittadini che hanno firmato ma alla possibilità per il presidente di apparire sugli organi di informazione. E sarà così finché il numero di storture sarà tale da spingere il parlamento a mettere un freno (se ne avrà il coraggio) o qualche corte europea a richiamarci al rispetto delle regole. Ci mancava solo questa. Con il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza, si è posto un limite alle conferenze stampa, ai pm che parlano degli indagati come colpevoli, si è detto che l’articolo 27 della Costituzione non è un diritto che si può barattare in nome degli ascolti.

Una vittoria, un cambio di passo, che ancora deve diventare cultura diffusa per procure e giornali che vivono delle veline passate dai pm. Da domani questa sfida che è prima di tutto culturale e politica sarà più difficile, perché nella fanfara è entrata a far parte proprio chi i principi costituzionali dovrebbe difendere. Ieri Amato, come un virologo qualsiasi, ha parlato di tutto, pontificando anche su questioni che non competono alla Corte Costituzionale. Forse questa stortura è dovuta al bisogno del presidente di riprendersi la scena dopo la mancata conquista dell’ambìto Quirinale. E ora, usando lo scranno di numero uno della Corte costituzionale, vuole se non costruire una nuova chance (altri sette anni di attesa sono troppi) tentare perlomeno di riconquistare gli onori negati.

Questo è umano, comprensibile. ma non accettabile perché il prezzo da pagare è troppo alto: la perdita di affidabilità della Consulta in una fase della vita della democrazia e delle istituzioni delicatissima. La crisi della rappresentanza è sempre più profonda, più preoccupante. Le ragioni con cui sono stati bocciati alcuni referendum ne amplifica la portata. La presenza in tv del presidente Amato trasforma la tragedia in farsa: tutto è spettacolo anche gli articoli della Costituzione.

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