La Corte ha deciso come molti si aspettavano o temevano. Ma non era una decisione obbligata, perché si poteva entrare diversamente nel cuore delle questioni che hanno indotto oltre 1.200.000 persone a sottoscrivere il referendum. Invece la Corte ha preso una decisione tecnico-giuridica, ispirata alla prudenza del diritto, come se fosse in gioco solo una norma del 1930 (l’art. 579 del codice penale) sull’omicidio del consenziente che mai ha voluto regolare i casi veri per i quali lo si commette: cioè per ragioni di pietà verso i malati. Indifferente il codice Rocco a questi motivi (del soggetto che agisce) e a questi diritti (del malato), così pare anche la Corte, nel momento in cui rispetta religiosamente il lessico del codice Rocco, e interpreta di conseguenza il quesito referendario, formulato però non nel 1930, ma nel 2021.

Sennonché, nel 2021, quando si parla di omicidio del consenziente si pensa all’eutanasia e chi dimentica questa regola ermeneutica dell’attualizzazione del contesto semantico tradisce l’appello degli elettori. È ciò che pare sia accaduto alla Consulta ascoltando le parole pronunciate in autodifesa (non petita) dal suo Presidente. Lodevole iniziativa, ma confessio manifesta di ciò che ci si attende di leggere nella prossima motivazione. E cioè che i radicali avrebbero ingannato gli elettori facendo loro credere che si discuteva di eutanasia, quando invece si discuteva di omicidio del consenziente. La verità delle cose è più complessa.

I proponenti avevano allestito un quesito che creava una normativa di risulta schizofrenica, in assenza di ulteriori riforme. Infatti, in caso di accoglimento, sarebbero coesistite due situazioni: da un lato, l’omicidio del consenziente (art. 579 c. p.) che sarebbe rimasto punito, nei casi di consenso assente o viziato, con la pena dell’omicidio doloso (come è oggi); mentre il fatto sarebbe risultato, per le rimanenti ipotesi di consenso valido, totalmente libero e privo di condizioni; dall’altro, l’aiuto al suicidio (art. 580 c. p.), punito in ogni caso, salvo alcune ipotesi molto restrittive legate invece a decorsi patologici estremi: attualmente, le quattro condizioni stabilite da C. cost. n. 242/2019, che hanno prodotto nella prassi un solo caso di suicidio assistito ammesso.

Senza correttivi di legge, dopo l’esito abrogativo si sarebbe potuto chiedere di morire, purché maggiorenni, capaci di intendere e volere, e non coartati, anche per denaro, gioco, sport, sfida, o per consapevole accettazione del rischio mortale di una attività estremamente pericolosa. Secondo la Corte, in tal caso, le persone “più deboli” anche se del tutto capaci di decidere, sarebbero state esposte a rischi troppo gravi. Avevo anticipato questi rischi evidenti (Il Riformista, 13 novembre 2021) e non posso che condividere la Corte in questa lettura, perché l’art. 579 c. p. tutela anche altri beni, diversi da quelli del malato aiutato a morire. Senza un intervento legislativo di correzione e integrazione un esito abrogativo di tale portata sarebbe stato inaccettabile.

Tuttavia, il referendum voleva proprio portare all’implosione non del sistema, ma del blocco legislativo in atto, per costringere il Parlamento finalmente a intervenire. Il Parlamento è paralizzato, come sappiamo, ma la Corte con questa sentenza lo aiuta purtroppo a restare inoperoso, perché adesso, trascorsi pochi giorni dal dibattito sul referendum bocciato, potrà attendere a problemi più premianti in vista delle prossime elezioni. La domanda è: c’era una alternativa? Si poteva, ammettendo il referendum, evitare di mettere a rischio quei diritti delle persone “deboli” non malate, e invece proteggere nello stesso tempo i malati estremi o terminali refrattari alla sedazione continua profonda e incapaci anche di inghiottire da soli un farmaco, ai quali non potrebbe applicarsi l’aiuto al suicidio ammesso dalla Corte, ma solo una forma attiva di aiuto diretto? Certamente, ma ciò avrebbe richiesto più coraggio istituzionale e più liberalismo.

Infatti, i quesiti vanno interpretati oggettivamente, al di là delle intenzioni dei proponenti. Lo si fa con le leggi, con le sentenze, con i contratti. Anche con i referendum. Le intenzioni soggettive non sono decisive. E le parole del 1930 vanno rilette nel contesto attuale. Ora, sul piano oggettivo il referendum non toccava l’art. 580 c. p. (l’aiuto al suicidio) nella sua portata molto limitata ridisegnata dalla Corte. Restava intatto, e altrettanto aperta la sua sorte. Qualunque sia stato il motivo dei proponenti, essi hanno immaginato un esito referendario positivo che avrebbe visto la possibile permanenza della punibilità dell’aiuto al suicidio. Non erano e non sono i padroni del Parlamento, come non lo è la Corte. Tuttavia, si introduceva una contraddizione da risolvere. Significa ciò che questa norma sarebbe stata anch’essa da abolire, o invece che la abrogazione dell’omicidio del consenziente avrebbe imposto una legislazione diversa e armonizzata? Anche mediante un nuovo omicidio del consenziente da reintrodurre?

La Corte poteva indicare l’interpretazione costituzionalmente compatibile con la conservazione del referendum, del diritto degli elettori e dei diritti dei malati che sono alla base della richiesta firmata con quel consenso popolare. E si sarebbe trattato di una interpretazione del tutto conforme a quanto ha motivato la Consulta con la sentenza di inammissibilità (v. le dichiarazioni di stampa), ma in senso conservativo, anziché di esclusione del giudizio popolare.
La Corte aveva il potere di farlo, e non poteva attendersi che dal quesito stesso emergesse il rispetto di questo limite costituzionale. Pertanto, il richiamo ai limiti costituzionali di una tutela assente poteva indicarli la Corte, perché la lettura sistematica delle due norme circoscriveva il dibattito al fine vita e ai diritti del malato, come attesta senza dubbio il riferimento alla disciplina delle Dat presente oggi nell’art. 580 c. p., proprio per l’intervento additivo della Consulta con la sentenza 242/2019. I conti con il permanente art. 580 c. p. doveva farli il legislatore nei limiti della conservazione di una norma esimente (riformata) anche in relazione a un nuovo omicidio del consenziente.

Certo, se un legislatore irresponsabile avesse consentito ex post le gare mortali tra gladiatori o l’omicidio sportivo con scommesse sulla vita, la Corte non avrebbe potuto sindacare una semplice assenza di tutela e invalidare ciò che non c’è: lo può fare la Corte Edu ex post, non la Consulta, che ha invece ex ante un sindacato di questo tipo in sede di giudizio di ammissibilità di un referendum. Ma era fondato questo timore? Io credo francamente di no e su questo anche i giudici si saranno divisi. Bastava chiarire che si può cancellare l’omicidio del consenziente solo in determinati casi, non in generale, se non al prezzo di introdurre tante diverse incriminazioni di possibili abusi del diritto di mettere a rischio una vita col consenso del suo titolare: il datore di lavoro non può promettere incentivi al dipendente perché acconsenta a rinunciare alla sicurezza del lavoro. Il Parlamento ha del resto mille ragioni politiche per rassicurare i cittadini, e poche invece per proteggere i malati più gravi perché fisicamente incapaci persino di suicidio, e dunque anche di votare.

È invece plausibile che la Corte, anziché per questo timore di esiti facilmente rimediabili dal legislatore, abbia avuto altre preoccupazioni. Si è forse pensato che, una volta abolito l’art. 579 c.p., sarebbe stato politicamente difficile reintrodurlo con tutti i limiti desiderati per circoscrivere i diritti del malato, o magari lo si sarebbe fatto, ma a condizioni troppo liberali rispetto a quelle (rigorosissime) “ammesse” dalla stessa Corte nel 2019. E forse questo rischio ha orientato la maggioranza dei giudici costituzionali. Insomma: la sensazione è che la Corte, già esposta nel 2019 per aver concesso, con una sentenza additiva, la non punibilità a chi aiuta a morire pochi e sfortunati portatori di patologie in realtà refrattari a una sedazione profonda, abbia ritenuto di poter bilanciare in limine i loro o analoghi diritti: diritti mai ammessi esplicitamente come tali nelle precedenti decisioni, e che peraltro sono di fatto bilanciati con quelli, ora ritenuti prevalenti, che l’abrogazione dell’art. 579 c.p. poteva teoricamente compromettere.

Si è ragionato come se quella abrogazione fosse definitiva, e questo scenario è stato purtroppo sostenuto – non si può tacerlo – dai difensori del referendum, che hanno seguito non nei media, ma nelle comunicazioni processuali o per giuristi, la linea tutta “liberal” di un diritto incondizionato di morire per mano altrui, senza barriere diverse dalla piena capacità di determinarsi. Un superomismo nietzscheano, anziché la tutela dei deboli: una cultura che la Corte non poteva che vedere come fumo negli occhi dopo le sue pronunce del 2018 e del 2019. Allora la Consulta ha pensato di sacrificare i diritti del malato, addebitando ciò a proponenti e Parlamento.

Ma sa bene che così facendo ha tutelato diritti potenzialmente lesi da legislazioni future solo immaginate, e non quelli realmente offesi dalle leggi vigenti! Si è quindi operato un bilanciamento: si potevano garantire, col referendum, sia i diritti di questi soggetti fragili, insieme a quelli degli elettori di pronunciarsi, e sia il diritto-dovere del Parlamento di provvedere, in caso di abrogazione, a riscrivere complessivamente l’assetto del fine vita, unitamente agli artt. 579 e 580 c.p. È parso che fosse chiedere troppo a questo Parlamento, dopo tre anni di inettitudine? E allora rimane l’ideologia del codice Rocco del 1930: nessun motivo pietoso e nessun diritto dei malati umanizza la disciplina penale dell’art. 579 c.p., che continuerà a criminalizzare questi diritti, anziché riconoscerli.