1. Non altrove ma qui, in Italia, quelli che dal 1789 abbiamo imparato a chiamare diritti civili sono da tempo battezzati diversamente: li chiamano temi eticamente sensibili, dunque divisivi, per questo tenuti distanti il più possibile dall’agenda parlamentare, nella convinzione che il modo migliore per liberarsene sia ignorarli. Su argomenti che vanno dallo statuto dell’embrione al momento in cui ci lasceranno morire, la logica deliberativa è quella del peccato che si fa reato, del «io non voglio, dunque nessuno può», imposta con il pugno sul tavolo della conta o dei veti reciproci. Un mix tra convento e caserma.

Succede così che, inagibile l’agorà legislativa, si tenti di usare il diritto (lex) per affermare i diritti (iura). È la strada che la Costituzione apre, prevedendo strumenti di decisione politica alternativi a quella parlamentare, introdotti nell’ordinamento proprio per colmare la distanza tra norma vigente e fatto sociale. Il referendum è uno di questi. Ci vogliono anni di azione politica per creare le condizioni necessarie a una campagna referendaria. Serve molto tempo, e altro ancora, per avanzare. Basta invece una camera di consiglio di un paio d’ore, a Palazzo della Consulta, per arretrare alla casella di partenza. Un mix tra il gioco dell’oca e il “non t’arrabbiare”. Sul piano della politica del diritto, Camere e Consulta convergono così nell’esito: il nulla di fatto. A muoverle, probabilmente, è la medesima paura: che quanto riconosciuto per legge o per via referendaria diventi scelta possibile, uscendo così dalla clandestinità (dove «si fa ma non si dice») e dalla sfera della riprovazione sociale e morale, riuscendo a intaccare paradigmi altrimenti consolidati. Meglio, quindi, ignorare. Meglio, cioè, non legiferare o non far votare. È questa la sorte toccata al referendum in tema di eutanasia attiva.

2. Andrà letta la sentenza che verrà, decisa probabilmente a maggioranza. Sarà fatto, sine ira et studio. Oggi però abbiamo davanti un comunicato stampa che, al giurista, dice già molto nella sua stringatezza. Rivela, innanzitutto, che a determinare la bocciatura del referendum non è stata la tecnica seguita per confezionarne il quesito. L’intervento chirurgico sull’art. 579 c.p. – riconosce la Consulta – produce l’effetto tipico «dell’abrogazione, ancorché parziale, della norma sull’omicidio del consenziente».

Così come non viene indicata, come motivo di inammissibilità, la natura propositiva del quesito, accusato da più parti di introdurre nell’ordinamento un principio di autodeterminazione totalmente estraneo al contesto normativo di partenza. Il quesito è caduto non per la domanda referendaria, ma per i suoi (presunti) effetti normativi: «non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana». Inammissibile, dunque, sulla base di una strategia decisoria che – essa sì – è processualmente inammissibile, se si prendono sul serio le fonti che disciplinano il giudizio referendario.

3. «È ammissibile il referendum?»: questa è la sola domanda cui la Corte era tenuta a rispondere. Ha risposto, invece, a un diverso interrogativo: «è conforme a Costituzione la normativa conseguente al referendum?». Le domande precedono sempre le risposte, orientandole: evidentemente, la seconda – a differenza della prima – agevolava l’esito desiderato. La differenza tra i due interrogativi è tutt’altro che un cavillo da azzeccagarbugli. Il giudizio di costituzionalità di una legge ha ad oggetto una norma in vigore, applicata da tempo, interpretata dai giudici e che non si presta a letture costituzionalmente orientate.

Anticiparlo in sede referendaria significa trasformarlo in altro da sé. Radicalmente diverso ne è l’oggetto del tutto ipotetico ed eventuale, subordinato com’è a molteplici condizioni: l’ammissibilità del quesito, l’inerzia del legislatore, il raggiungimento del quorum di validità della consultazione referendaria, la prevalenza nelle urne dei favorevoli sui contrari all’abrogazione, la circostanza che il Capo dello Stato non sospenda la proclamazione dell’esito referendario al fine di consentire un intervento legislativo atto a prevenirne l’effetto abrogativo (come consente l’art. 37, comma 3, della legge n. 352 del 1970). Non si nega uno strumento di democrazia diretta utilizzando la sfera di cristallo. Non si boccia un referendum oggi, per quello che predittivamente si ritiene potrebbe produrre domani. Dai giudici costituzionali si pretendono giudizi disciplinati dall’ordinamento, che non contempla in alcun modo un sindacato di legittimità ipotetico e astratto. Lo sa(peva) la Consulta. L’altro ieri ha cambiato idea.

Di più. La Corte avrebbe sempre potuto poi misurare la legittimità della normativa di risulta nella sede deputata a farlo: il sindacato di costituzionalità. Sede dove dispone di strumenti – interpretativi, manipolativi – idonei a orientare al meglio l’applicazione della norma oggetto di giudizio. Strumenti di cui, invece, è priva come giudice di ammissibilità del quesito. Aver sovrapposto le due competenze ha finito così per penalizzare il referendum, precludendo qualsiasi adattamento costituzionale del suo esito normativo.

4. Il comunicato dell’Ufficio stampa della Corte costituzionale tiene a specificare che l’esito del referendum minerebbe la tutela della vita umana «con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili». A chi si fa riferimento? Non certamente ai soggetti già tutelati dall’art. 579, comma 3, c.p., che il quesito confermava in toto: persona minore degli anni diciotto; inferma di mente; in condizioni di deficienza psichica; colpita da altra infermità; che abusa di sostanze alcooliche o stupefacenti; il cui consenso sia stato estorto con violenza, o minaccia, o suggestione, o carpito con inganno.

L’applicazione che la giurisprudenza penale ha fatto di tale disposizione ne incrementa l’elenco: uno stato depressivo, una nevrosi momentanea, una qualunque condizione che concorra a diminuire anche temporaneamente la capacità psichica del soggetto (come una delusione amorosa o una crisi finanziaria), sono tutte circostanze che, in sede processuale, determinano l’assenza di un consenso valido. In tutte queste ipotesi, normative e giurisprudenziali, l’omicidio del consenziente è punito – di default – a titolo di omicidio volontario. E così sarebbe accaduto anche dopo l’eventuale successo del sì nelle urne referendarie. E allora?

Forse il riferimento ad altri soggetti «deboli e vulnerabili» è da intendersi alla mancata inclusione dei limiti posti dalla decisione della Consulta sul “caso Cappato” che ha depenalizzato il reato di aiuto al suicidio, quando riguardi una persona «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli» (sent. n. 242/2019). Se davvero è così, si tratta di una pretesa incongrua, rispetto a uno strumento – il referendum – che è solo abrogativo di norme vigenti, privo dunque della capacità di introdurre ex novo una disciplina così dettagliata. Ma è pure una pretesa infondata. Perché è proprio l’ultima delle quattro condizioni indicate a giustificarne l’esclusione dall’art. 579, comma 3, c.p.: se in grado di esprimere validamente la propria determinazione ad evadere da un corpo che si è fatto crudele prigione, proprio a quel soggetto il referendum intendeva restituire la libertà di scegliere la fine della propria vita.

Nel frattempo, a Corte non viene avvertita con eguale apprensione la condizione drammatica di chi – per mero accidente – non rientra in quelle quattro condizioni che rendono lecita l’eutanasia passiva: malati terminali che sopravvivono senza trattamenti di sostegno vitale, malati sofferenti che non sono in grado di assumere autonomamente il farmaco letale. Per essi l’eutanasia attiva referendaria rappresentava, allo stato, il solo orizzonte possibile. Non sono anche loro «persone deboli e vulnerabili» meritevoli di tutela?

5. Vedremo se e come la sentenza scioglierà le perplessità suscitate dal comunicato che la preannuncia. Al netto di ogni valutazione tecnico-giuridica, gli effetti collaterali si faranno sentire, e a lungo. L’elevato numero di sottoscrizioni al quesito, infatti, aveva restituito il senso di una partecipazione politica collettiva da tempo smarrita. Prometteva anche di rivitalizzare un istituto referendario agonizzante, sottraendolo alle derive di un referendum “propositivo” che si è tentato di introdurre in Costituzione ma fuori dal suo alveo, in una chiave plebisicitaria e anti-parlamentare.

Nel frattempo, sorde all’ascolto e mute di parole, le Camere avranno agio a trovare, nell’esito della sentenza della Corte, vecchi argomenti nuovi per rinviare, tergiversare, non deliberare. Il disinnescato appuntamento referendario agevolerà la latitanza parlamentare. Chissà se, tra i giudici costituzionali favorevoli alla decisione presa, qualcuno ne avrà scrupolo.