A proposito di settembre, generazioni di italiani si sono guastati le vacanze per le famose riparazioni”. Anche se oggi la pedagogia ammette che in estate non si ripara nulla di sostanziale, quindi andrebbe usata la mano leggera per i peccati veniali, tornando alle bocciature per i casi disperati. Resta nell’aria l’idea che a settembre arrivano voti “importanti”, cioè che si sistemano le pagelle”. E noi prendiamo pretesto da questa ricorrenza di altri tempi per dare il via a una rubrica che potrebbe avere cadenze regolari per riflettere su una “pagella” molto singolare. Ma importante per tutti i cittadini della Repubblica. È la pagella di chi va promosso nel difficile compito di migliorare la reputazione nazionale. E di chi va bocciato perché ha dimostrato di avere abbassato nell’opinione pubblica, anche internazionale, il buon nome dell’Italia e la sua immagine. Che, diciamo, resta immagine onorata per le buone eredità che la sostengono. Ma è spesso minacciata quando per cattivo uso di responsabilità visibili finisce che il “titolo” nella borsa simbolica generale subisce un tonfo, accusa un’ammaccatura, perde terreno.

I ranking reputazionali

Non è un gioco. E non è questione di ombre soggettive. I ranking reputazionali di città e nazioni esistono da anni. Sono imprese complesse, amministrate con regole demoscopicamente trasparenti e con parametri su cui si discute in permanenza (e ne riparleremo). Tutto ciò che connota l’italianità diventa fonte di credito o di discredito. E le narrazioni che partono da casi di successo o insuccesso viaggiano ormai molto rapidamente. Incrociano sciami di stereotipi, alcuni dormienti altri attivi. E alla fine migliorano, peggiorano, scalfiscono, ignorano la sostanza immaginaria per la quale nazioni e città salgono o scendono non solo a scopo “morale”. Ma influenzando molto il potenziale attrattivo o quello repulsivo che circonda un nome e la sua vibrazione immateriale.
Questo schema ha molti soggetti in campo (istituzioni, imprese, enti, organizzazioni di scopo, naturalmente anche persone) che hanno il potere di influenzare le dinamiche. E il controllo di questi processi, accompagnato da analisi interpretative e correttive, è da tempo un’area disciplinare (il public branding) e un cantiere di studi, dibattiti e proposte. Arriverà il momento in cui proveremo a mettere sotto la lente cose complesse, situazioni in bilico, momenti storici delicati. Qui lo spunto “scherzoso” di avviamento ci rende il compito facile e limitato.

Due tonificatori e due ammaccatori del brand Italia

Con l’intento di far capire che il filo rosso di questo approccio è soprattutto legato ad una valutazione empirica di quel nodo che Giorgia Meloni ha trasformato in una sfida (di per sé non è un demerito) che tuttavia deve rendere anche opportune e plausibili le condizioni di verifica e di controllo. Mi riferisco all’espressione “interessi nazionali”, che non è un mantra da usare come una clava per distinguere a priori chi governa da tutti gli altri. Perché può darsi anche il caso che chi governa non faccia l’interesse nazionale e chi si oppone invece lo faccia. Ma anche questa non è una regola santificata. Parlando poi di persone – e non di organizzazioni complesse – l’indagine è persino più facile ed è sotto gli occhi di tutti. Non sarà ogni volta una passeggiata. Ma ora lo è, per ragioni di “rodaggio redazionale”. Dunque, quattro persone. Due tonificatori del brand Italia. Due ammaccatori del brand Italia. Lo dico al maschile perché la sorte oggi li vuole al maschile. Non sarà sempre così. E le “persone” non saranno il soggetto preferito nella ricerca. Non è difficile la risposta alla domanda: chi ha più aiutato in questa “ripresa” il buon nome dell’Italia? Proverei a proporre i nomi di Jannik Sinner e di Mario Draghi.

Sinner è umano, vince e stravince

Jannik Sinner è sobrio, misurato, parla con i fatti. Ora si sa che non è un giovane dio dell’Olimpo. Può avere problemi di salute. Può incorrere in un infortunio regolamentativo, magari incolpevole. Dunque, è umano. Vince, stravince. Ma a condizione di concentrarsi e lavorare duramente. È primo al mondo laddove il tennis italiano era latente da anni e ora con questa locomotiva si scopre un’intera nuova generazione. Che aiuta a orientare anche un riequilibrio dei consumi sportivi, facendo emergere l’eleganza da una parte e la degenerazione (anche criminale) in molte curve del tifo calcistico. Rappresenta un territorio di confine (tema di qualche ambiguità in Italia col bisogno di buoni esempi) e tiene in condizione di valore la sua “piccola differenza” linguistica (altrimenti disprezzata dall’italiano medio) facendo adempimenti di italianità mai falsi e non retorici. Tutti al mondo sanno che ora un italiano è il numero uno e se si va a vedere il parterre di New York agli US Open si capisce cosa vale l’applauso americano per un italiano che batte un americano. Wada non fa ricorso e il caso “Clostebol” è chiuso. Resta il legittimo giro di un grande business e le forse meno legittime questioni fiscali. Ma diamo il tempo a Jannik di sistemare con la sua testa la sua vita.

Draghi e il merito metodologico

Mario Draghi – qui in seconda battuta solo per cronologia degli eventi – ha messo il suo nome e un’idea di fondo su un documento di 400 pagine scritto da 400 funzionari della Commissione europea che hanno calibrato la sostenibilità delle proposte settore per settore, paese per paese. L’idea di fondo è quella che gli ha riconosciuto Il Sole 24 ore, dedicandogli tre pagine.
Al di là delle 170 proposte che il suo Rapporto sulla competitività della UE contiene, il punto è di mettere in campo l’idea che gli europei devono fare un salto di mentalità ora, pena la dissoluzione dell’Europa come global player. Se partirà il dibattito politico sul Rapporto poi sarà la politica a modulare le fattibilità, ma il merito metodologico di questo passaggio è enorme nel quadro della storia dell’Europa unita e che esso riguardi un italiano vale come la firma di un italiano (Altiero Spinelli) sul manifesto di Ventotene.

Sangiuliano insostituibile

Ed eccoci alla coppia in maglia nera. Immagino che non ci sia lettore che non abbia già sgamato a questo punto il nome di Gennaro Sangiuliano. Si, lo confesso. Ho provato a trovare sostituti, per uscire dalla ovvietà. Ma questa è una pagella emblematica. E la cronaca dell’accaduto è esemplare. Non ci torniamo sopra. Il punto (su cui ho già scritto qualcosa) è che, mentre Giorgia Meloni dice che è una questione privata, dunque chiusa; e mentre le opposizioni dicono che è una questione politica dunque aperta, essendo ovvio a tutti che la vicenda è privata e politica in modo intrecciato, ma prima ancora essa riguarda un vulnus istituzionale. Il modo con cui essa ha avuto spazio di gioco in una importante istituzione, senza più regole, senza più regia, senza più confini tra istituzioni e politica, è la somma delle cose che fanno di questo affaire un danno al buon nome dell’Italia. Non mi dilungo su aspetti di contorno, mi dispiace persino un po’ di infierire, ma è proprio per il tema “brand Italia” (e lo strombazzamento che il governo fa al riguardo) che questo nome in pagella mi sembra pertinente.

Ficili e la Maserati

E adesso un nome che farà meraviglia, perché i più diranno, ma chi è questo? Il nome è Santo Ficili. È nato nel 1966, e nel 1987 è stato assunto in Fiat, dopo aver fatto tre anni di Scuola Lancia Automobili. E allora? Allora, dal 2 marzo 2021 Santo Ficili è il Country Manager di Stellantis in Italia. Non si hanno prove, ovviamente, che sia lui in persona ad avere firmato la lettera del Management Stellantis che invita impiegati e operai del gruppo, segnatamente in Italia, a farsi avanti, con i benefici aziendali, per l’acquisto di una Maserati, da 90mila a 400mila euro. Certo l’ideatore della proposta – arrivata anche ai cassintegrati, arrivata comunque alla fascia stabilizzata di operai a 1200 euro al mese, arrivata a migliaia di dipendenti che sanno che il capo azienda guadagna 700 forse mille volte di più – diventerà un caso studiato dai manuali di psicologia aziendale o delle nuove forme del marketing utopistico. Quel che sappiamo è che il capo di Stellantis in Italia è lui. E il teorema del “non poteva non sapere” scatta maledettamente anche nel suo caso. Quanto questa discrasia percettiva faccia male al “brand Italia” che si alimenta di coesione, etica del lavoro, reputazione di prodotto e di processo, è inutile che lo stia qui ad illustrare.

Stefano Rolando

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