Con il dissidio tra la Lega e il ministro della Cultura, benché ricomposto nella direzione di un disegno di legge, torna in primo piano il tema antico del potere (strapotere?) delle soprintendenze in materia di rinnovamento urbano. Al di là della voglia di fare polemica, del bisogno di farsi vedere, di questa o di quella tecnicalità giuridica, il problema c’è. È nelle cose. In materia di progettualità urbana – normalmente – si confrontano due necessità, entrambe importantissime: da una parte salvaguardare quell’immenso bene culturale che è l’Italia, evitare errori irreparabili, consegnare ai nostri figli un paesaggio più attraente di quello che abbiamo ereditato; dall’altra vivere in questo paese, che non è un museo, abitare i palazzi storici, riscaldarli e rinfrescarli, dotarli di ascensori, di pannelli solari, di luce.

I requisiti da soddisfare

Questi due requisiti devono essere soddisfatti insieme, perché senza l’uso non c’è salvaguardia. Se non praticabili appieno, gli immobili restano vuoti e degradano. Due condizioni forti da conciliare: ecco perché si genera un’azione amministrativa lunga, talvolta estenuante e senza successo, sempre con costi aumentati, per raggiungere il difficile equilibrio tra le due necessità. Il problema sta nel fatto che la funzione conservativa è esercitata dallo Stato con propri apparati, mentre quella gestionale spetta agli attori urbani, privati ma anche pubblici – pensiamo ai Comuni – agli studi professionali, architetti e avvocati.

Lo squilibrio

Sono le soprintendenze che decidono in ultima istanza, è una parte che decide per il tutto, competenze di tipo culturale che debordano anche in giudizi ed effetti gestionali, immobiliari, competenze settoriali per decisioni generali. È questo squilibrio, evidentemente, che crea insoddisfazione. Una sproporzione che è nelle cose prima che nelle persone, funzionari in realtà quasi sempre animati da un’autentica passione per il bello e per la storia e da un sincero timore per il rischio di speculazioni.

Che fare? A me pare che ci sia una soluzione semplice. Lo Stato in tutte le Province ha una figura generale, capace di comporre e mediare interessi: i prefetti. Si potrebbe affidare a loro un giudizio finale sulle criticità che non si compongono da sé, e loro potrebbero esercitare la funzione come “giudici di pace”, avvalendosi di autorevoli esperti, fuori dal business. Con i poteri o limitandosi alla moral suasion. Si potrebbe cominciare – per esperimento – con le criticità nelle relazioni delle soprintendenze con i Comuni e le altre istituzioni, per poi estendere ai privati.

Mauro Feliconi

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