"Più coraggio, meno espedienti"
Petruccioli e il “cerino” di Franceschini: “Accolto come l’uovo di Colombo ma la sinistra non vede i problemi reali”
L’ex Presidente Rai, cinque volte parlamentare, è scettico sul lodo Franceschini: “Serve un nuovo ordine mondiale, l’Europa al centro e i riformisti protagonisti”

Claudio Petruccioli – cinque legislature tra Camera e Senato, direttore de L’Unità, per quattro anni Presidente della Rai – è stato tra i dirigenti del Pci che hanno guidato l’ala migliorista e poi dato vita a LibertàEguale. Testardamente riformista, tenacemente aderente all’idea europea di una sinistra democratica e di governo, è convinto che il momento storico che stiamo vivendo sia sfidante. E che richieda uno slancio di pensiero in più.
Un periodo di riflessione vivace, nel centrosinistra.
«Si, c’è una ripresa di discussione. Ancora parziale, va detto. Ha preso il via dai due convegni di Orvieto e di Milano ed è stata ravvivata dal cerino acceso da Franceschini».
Un cerino che rischiara la candela o che può attizzare un incendio?
«Un cerino che fa la luce di un cerino. È significativa, però, l’attenzione con cui la proposta è stata accolta e considerata, tutto sommato, da valutare. Perfino Prodi – che pure la critica – dice che, semmai, a una cosa del genere si può pensare all’ultimo momento».
Perché? Non è una proposta possibile, attuabile?
«Tecnicamente è attuabile. Fra i partiti che “ci stanno” e che da soli avrebbero poca o nessuna probabilità di arrivare primi nei collegi uninominali, si spartiscono quei collegi; ognuno poi mette il candidato che vuole nei posti che è riuscito a strappare. Per legge, l’elettore dà un solo voto: quello al partito per la parte proporzionale, che viene automaticamente trasferito al candidato di riferimento nell’uninominale. La repulsione verso quest’ultimo dovrebbe essere così forte da far negare il voto al proprio partito. Poco probabile».
Allora, cosa c’è che non va?
«La proposta di Franceschini “marciare divisi per colpire uniti” è un invito a ciascun partito a far leva sulla sua vera o presunta “identità” è stata perciò accolta come l’uovo di Colombo, anche con un respiro di sollievo. Ma così si accentuano le peculiarità, le unilateralità, si sottolinea non ciò che unisce ma ciò che divide coloro che si sono spartiti i collegi uninominali. Come se gli elettori – in particolare quelli che si astengono – fossero disposti a votare solo per chi “è uguale a loro” e fossero indifferenti di fronte alla scelta su chi affidare il governo del Paese. Solo chi ragiona così può pensare di rinviare a dopo il voto tutto quanto (programmi, leadership, eccetera) riguarda il governo».
Ma lei cosa pensa di quest’uovo di Colombo?
«Penso sia un tranquillante, fornito alla infrastruttura burocratica della politica odierna, non solo quella del Pd: a chi non si misura con i problemi veri che scaturiscono dalla realtà, anzi neppure li vede. Non li riconosce. Non se ne fa carico. È una furba, tranquillizzante manovra tattica che copre la disponibilità a una disastrosa ritirata strategica».
Non le sembra di essere troppo severo?
«No. Una proposta come quella avanzata da Franceschini, il fatto che venga presa in considerazione, magari solo come ipotesi di ultima istanza, svela un giudizio complessivo sulla realtà attuale dell’Italia e del mondo. Sono in corso trasformazioni vorticose, che dureranno e diverranno sempre più profonde e incisive. La competizione politica, la sfida per il governo, arrivo a dire il confronto per l’egemonia si misura sulla capacità di fare i conti con quelle trasformazioni, di trovare le risposte adeguate, le migliori, le più giuste e che tali possono essere considerate da una maggioranza dei cittadini. Limitarsi alla chiamata a raccolta contro le minacce, i pericoli incombenti è una manifestazione di debolezza, di un atteggiamento rinunciatario e perdente».
Quali sono questi pericoli, queste minacce?
«Mi sembra evidente: l’attenzione e il timore sono concentrati sulla destra che governa: Meloni in Italia, Trump in America e domani chissà chi in Germania, in Francia, In Europa».
Perché, la destra non è pericolosa?
«Certo che lo è; e la sinistra c’è per contrastare le politiche della destra, per denunciare i pericoli, le minacce autoritarie che scaturiscono dalla sua cultura e, spesso, dalla sua azione. Aggiungo che nelle fasi di grandi trasformazioni e incertezze, questi pericoli crescono e diventano più concreti. Ma oggi non si può farlo come a metà degli anni Quaranta, con lo spirito da CLN, chiamando a raccolta tutti per chiudere i conti con Hitler e Mussolini e aprire una stagione di normalità in cui ciascuno farà la propria parte».
Non siamo davanti a Mussolini e Hitler, ma pericoli ci sono. Non crede?
«L’ho appena detto. Ma oggi la sinistra non deve liquidare i residui di una destra che ha concluso in modo catastrofico il suo ciclo storico. Meloni o Trump non possono essere considerati incidenti, ancor meno residui della storia. In Italia sono ormai trent’anni che abbiamo anche governi di destra; negli USA la rielezione di Trump dopo l’intervallo di Biden dimostra innanzitutto che non si tratta di un fantasma minaccioso ma transitorio».
E allora?
«La destra che governa oggi è impastata con i cambiamenti in corso. In parte ne è conseguenza, in parte manifesta l’ambizione di essere la più in sintonia con quei cambiamenti; soprattutto esprime una fortissima intenzione di utilizzarli e l’altrettanto forte pretesa – questa sì molto pericolosa – di essere la sola a poterlo fare. La sinistra, se vuole prevalere, deve trovare la capacità di intercettare, interpretare, governare il cambiamento; non limitarsi a esorcizzare lo spauracchio della destra. Si tratta di capire la realtà e trovare le risposte per i problemi che ci pone la realtà, non di mettersi insieme per liberarci di un incubo. Questo è il punto».
Trovare il modo di costruire una maggioranza numerica non basta, non è quel che serve?
«Una sinistra di governo non può limitare i suoi obiettivi alla cacciata della destra. Anche quando l’ingegneria elettorale dovesse funzionare, poi che succede? Una sinistra che voglia costituirsi come alternativa di governo deve innanzitutto cercare e trovare le risposte ai problemi della società».
Vaste programme, direbbe De Gaulle.
«Tanto più in tempi come questi, che capitano una o due volte nel volgere di un secolo. Siamo davvero davanti a scelte cruciali: si tratta prima di tutto di definire e costruire un nuovo ordine mondiale. Che assicuri la pace, la convivenza, lo scambio e la collaborazione fra tutte le realtà statuali ed economiche, tra tutte le civiltà, le religioni, le culture».
Prima del mondo c’è l’Europa.
«È già compresa: senza l’Europa, protagonista consapevole, operante, incisiva, un nuovo ordine mondiale con queste caratteristiche non si può costruire. Non è solo che bisogna diventare più forti in Europa per partecipare al braccio di ferro tra potenze, ma perché solo dall’Europa può emergere una visione di questo genere e di questa portata. Nello stesso tempo bisogna misurarsi con la profondissima rivoluzione, tecnico-scientifica e produttiva, appena iniziata. Utilizzarla per sostenere e rilanciare una nuova stagione di sviluppo che riduca gli squilibri e le diseguaglianze; che rafforzi le grandi conquiste del welfare, dove ci sono, e le diffonda progressivamente dove mancano».
Insomma, la sinistra deve ritrovare la sua spinta riformista, cioè di governo dei cambiamenti.
«Nella storia, nei periodi di mutamenti paragonabili a questo che viviamo, la sinistra ha sempre denunciato i pericoli e combattuto per i diritti, per i più deboli. Non sempre si è proposta di padroneggiare e governare i cambiamenti. E invece oggi deve darsi prima di tutto questo obiettivo. Deve capire i cambiamenti, interpretarli, utilizzarli, guidarli. Ci vuole intelligenza, pazienza, dedizione e coraggio. Anche il coraggio di contrastare le tendenze alla semplificazione, di sottolineare la necessità della fatica quando si devono affrontare questioni difficili e complesse».
In un quadro di riferimento politico-culturale chiaro.
«Sì: l’imperativo che il tutto deve avvenire con il fermissimo impegno a difendere e riformare, cioè potenziare le istituzioni, le garanzie e le regole della democrazia liberale. Che sono poi l’anima della nostra civiltà, la più grande conquista di quello che chiamiamo “Occidente”. È essenziale anche per affrontare nel modo giusto la destra. Gli attacchi alla democrazia liberale costituiscono a mio avviso una grande contraddizione per la destra in questa parte del mondo. Una destra c’è, ci sarà sempre e aggiungo: è un bene che ci sia. Ma come sottolinea Michele Salvati, deve essere anch’essa ancorata alle regole della democrazia liberale».
Sta dicendo che la sinistra deve abbracciare la civiltà dell’Occidente?
«Dico che la sinistra di governo deve essere campione nella difesa di questa civiltà e del suo ancoraggio vitale: la democrazia liberale. Deve esserlo anche per influire sulla destra, e impedirle di abbandonare quell’ancoraggio. Dislocare le forze alternative alla destra mettendosi i paraocchi di fronte a tutti questi problemi, ventilare timorosi aggruppamenti difensivi privi di coesione e di simpatia, significa ritirarsi dal fronte su cui si deve combattere. E condannare la sinistra, in tutte le sue forme, all’irrilevanza. E agevolare anche la prevalenza, nella destra, delle forze peggiori».
Le grandi idee hanno bisogno di grandi interpreti, ne vede?
«Non so se queste che ho esposto sono grandi idee. Se lo sono si deve lavorare affinché diventino patrimonio condiviso: con il contributo di tanti uomini e tante donne che fanno vivere la politica democratica. Quel che lei dice con la sua domanda può essere letto anche così: produciamo, facciamo circolare grandi idee e forse faciliteremo la comparsa dell’interprete giusta, o giusto».
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