L’intervista di Dario Franceschini “intelligente e realistica” – come l’ha definita Carlo Calenda – promuove un punto che il centrosinistra non può più ignorare. Tra il Pd e Forza Italia c’è un campo elettoralmente enorme e colpevolmente incolto.

Cosa farne? Rottamato l’Ulivo, serve un soggetto capace di aggregare i moderati e “marciare divisi per colpire uniti”, anche mettendosi insieme dopo le elezioni. Franceschini, dall’ufficio che ha aperto in una ex officina nel variopinto Esquilino, a Roma, riceve i suoi ospiti davanti al banco metallico.

Gli strumenti di lavoro ci sarebbero tutti ma manca un progetto definito, una carrozzeria da motorizzare. I piloti per guidare il prototipo, invece, ci sono: Beppe Sala ed Ernesto Maria Ruffini, lo stesso Calenda o Giulia Pastorella, che oggi lancia la sua candidatura per guidare Azione, riunendo a Milano i liberali e i radicali di tutte le sigle. Se il Pd mette da parte le velleità maggioritarie e definisce il suo ruolo di egemone a sinistra, non escludendo di allearsi dopo il voto con un soggetto riformista, l’asse moderato può prendere forma.

Il referendum landinista sul Jobs act, l’Ucraina, le spese militari Nato sono temi su cui Pd e Libdem segneranno le rispettive identità. Sembra che Elly Schlein guardi con favore a questa prospettiva: forse l’uscita di Franceschini è stata in qualche modo concordata. Per darle successo ci vorrebbe più proporzionale, un ritorno che comporterebbe il recupero di quella vasta area dell’astensione dei ceti medi tartassati e impoveriti, ma dinamici e reattivi che oggi sono il vero, unico terzo polo.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.