Sono tante le testimonianze che i migranti ci consegnano dopo aver superato innumerevoli prove, legate ai viaggi e alle dolorose traversie che devono affrontare, traumi umani e linguistici, profonde lacerazioni e possibili ricuciture, ma poche quelle destinate a restare, questo perché in letteratura, come sappiamo, il nucleo tematico, per quanto interessante possa essere, conta poco.

A incidere è soprattutto lo stile, il timbro di voce. Soltanto lavorando sul respiro della scrittura si può arrivare a comprendere e far comprendere che quanto accade a un essere umano non riguarda soltanto lui, ma chiama in causa tutti noi. Nessuno può sperare di chiudersi a chiave dentro casa per salvaguardare chissà quali proprietà economiche o culturali. Ogni fiore conservato in bacheca è destinato, prima o poi, ad avvizzire.

Shahram Khosravi, esule iraniano fuggito dalla sua patria come obiettore di coscienza e, dopo anni di peregrinazioni fra Pakistan e India, giunto in Svezia dove insegna antropologia all’università di Stoccolma, ha scritto un libro, pubblicato nel 2010 e solo oggi tradotto dall’inglese da Elena Cantoni, che ha pochi uguali: in originale s’intitolava ‘Illegal’ Traveller, An Auto-Ethnography of Borders, da noi Io sono confine (elèuthera, pp. 238, 18 euro).

Le vicende richiamano quelle tipiche dei profughi: il distacco dalla famiglia, la vita all’addiaccio, gli arresti, le perquisizioni, persino le sparatorie (come il colpo di pistola che il protagonista riceve in pieno viso, vittima di un razzista seriale), reclusioni anche in capo al mondo (la detenzione nel campo di prigionia di Kiruna, oltre il circolo polare artico). Eppure la dimensione riflessiva e speculativa non viene mai meno, al punto che si passa dai toni del romanzo a quelli del saggio.

L’autobiografia è ancorata a un ricco corredo bibliografico che comprende i più grandi pensatori occidentali, da Walter Benjamin e Edward Said, ai quali il testo è dedicato, fino a Jacques Derrida e Giorgio Agamben, come se l’autore, dopo aver assorbito gran parte della cultura critica occidentale, avesse fatto ricerca diretta-mente su se stesso. Ne consegue un’opera per molti versi incasellabile: i librai, lasciandosi guidare dall’etichetta esterna, la collocano negli scaffali delle ricerche etnografiche, accanto a Malinowski e Levi-Strauss, tanto per intenderci, ma in realtà la sua posizione più azzeccata dovrebbe essere nella sezione di narrativa. La tensione emotiva si forma nei giorni trascorsi nelle misere stanze dell’hotel Shalimar di Karachi, in attesa di varcare nuove frontiere, sotto i vecchi ventilatori che ruotano lenti sui soffitti recando poco sollievo dal vento bollente e diventa sempre più forte fra la comunità di nullafacenti che ruota intorno a Defence Colony, quartiere di New Delhi, dove accanto alle prestigiose sedifortezza delle più importanti ambasciate, vive e prospera un mondo straccione e disperato ai margini del mercato ortofrutticolo.

Shahram si aggira fra trafficanti e spacciatori, poveri vagabondi e guardie doganali, clandestini e poeti, nel tentativo di trovare una casa dove abitare, una lingua in cui esprimersi, una famiglia che possa accoglierlo. Solo in Svezia comincerà ad elaborare ciò che gli è capitato. Non sarà facile ricomporre i pezzi dell’esistenza distrutta. Alla fine due famosi racconti di Franz Kafka lo aiuteranno in questa azione di consapevolezza, non senza lasciar crescere nel suo animo un sentimento amaro e sconsolato. Il primo è Davanti alla Legge: la storia di un contadino il quale trascorre l’intera vita in attesa di varcare la soglia in grado di farlo entrare nel mondo della giustizia, salvo scoprire alla fine dall’usciere che glielo impediva una verità sconcertante: la porta rimasta per sempre chiusa in realtà sarebbe stata destinata solo a lui. Il secondo, La tana, l’ultimo testo di Kafka, evoca un uomo-animale, schiacciato alle pareti del nascondiglio, alle prese con un probabile nemico che, dopo essere riuscito a intrufolarsi, forse vorrebbe ucciderlo.