Letture
Un’attenta analisi filosofica
Speranza, passione del possibile: il saggio che spazia dall’antichità a oggi, indagando su un’eterna tensione umana

Il legame tra la vita e la speranza ha molteplici ragioni, ma una cosa è certa: è indissolubile. Non si dice forse “finché c’è vita c’è speranza” o “la speranza è l’ultima a morire”? Addirittura nei lager nazisti, cioè in non-luoghi vicinissimi alla non-vita, si coltivava la speranza.
E allora, “capire” la speranza significa capire il motivo della vita, dalla notte dei tempi sino ai giorni nostri, nei quali cresce addirittura la speranza di vincere la morte (Yuval Noah Harari, “Sapiens”: «L’impresa più importante che attende la scienza moderna è la sconfitta della morte e la promessa di essere eternamente giovani»). Ecco dunque, a illuminarci sul tema, questo importante volume, “Speranza. Passione del possibile” (ed. Vita e Pensiero), scritto da Guido Gili (docente di Sociologia nell’Università Gregoriana e di Teoria della comunicazione nell’Università della Santa Croce) e da Emiliana Mangone (professoressa di Sociologia dei processi culturali e comunicativi dell’Università di Salerno), che è una dottissima ricognizione storica, filosofica, politica sull’eterna tensione umana alla speranza.
Parola che significa molte cose diverse in relazione al soggetto che spera e alla cosa sperata, e che ovviamente muta di senso a seconda dell’epoca in cui matura. Il senso “politico”, il “luogo” sul quale esercitare questa tensione alla speranza pare essere soprattutto «laddove un essere umano rivolge la sua attenzione a un altro e si prende cura di lui. Questa percezione appartiene all’uomo di ogni tempo e di ogni cultura poiché, come osserva il filosofo cinese Mengzi (latinizzato come Mencio), vissuto nel IV-III secolo a.C., non c’è essere umano che possa sopportare di vedere le sofferenze altrui. […] Quando gli uomini vedono cadere un bambino in un pozzo, tutti provano un sentimento di dolore e di sofferenza, e non perché essi pensino che agire in base a questo sentimento sarà per loro causa di merito di fronte ad altri (e non perché il bambino sia un membro della loro famiglia o comunità). Se essi non sovvengono all’urgente e terribile bisogno del bambino, essi mancheranno di umanità, proprio perché si tratta di un bisogno urgente e terribile. Di qualcosa senza la quale noi saremmo manchevoli nelle nostre relazioni sociali».
Questo, la speranza di salvare il bambino, è molto cristiano. Ma non solo, ovviamente. C’è la speranza ebraica, e quella di tutte le religioni: l’aspirazione ad altri mondi. E c’è la speranza di migliorare la nostra condizione con la quasi certezza di poterlo fare: questo è l’Illuminismo, poi il marxismo. Gili e Mangone invitano a considerare che la speranza è in sé un guardare sempre avanti. «Nulla è tanto contrario alla speranza quanto il guardare indietro, cioè riporre la speranza nelle cose che scorrono via e passano», scrive Agostino. Ma è importante capire che la speranza non è solo quella rivolta a un domani indistinto, ma che è qui e ora: essa «non è previsione del futuro ma è la visione del presente in stato di gestazione», come scrisse Erich Fromm. Il presente, cioè la vita.
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