Se l'Italia si chiama fuori dagli accordi NATO
Spese militari, Schlein non calcola i rischi: dalla rottura dell’equilibrio geopolitico alla perdita di credibilità in politica estera
Gli investimenti nel settore sono in aumento, e rischia di venir meno il meccanismo della deterrenza. Le politiche di difesa, sicurezza e alleanza, richiedono statisti dotati di lungimiranza e forza d’animo. Ma il “nuovo Pd” dell’estate militante, pensa che sia più facile risolvere tutto strimpellando una chitarra nel segno del “peace and love”
L’ultima uscita di Elly Schlein, contraria al percorso di allineamento al 2% delle spese militari sul PIL decise in sede NATO da governi a guida Pd e da ministri della difesa espressione dei Dem, merita un approfondimento perché abbraccia almeno quattro campi di lavoro su cui una decisione simile esplicherebbe le proprie conseguenze: un campo geopolitico, uno di politica della difesa, uno di politica estera ed uno di politica interna.
Analizzando nel merito questi quattro aspetti, è più facile rilevare la conseguenza della portata delle affermazioni di Schlein, che hanno già fatto scattare il campanello d’allarme in zona Nazareno viste le dichiarazioni di Lorenzo Guerini e il ritorno in campo, sul modello dei riservisti, di Luigi Zanda che dalle pagine di Repubblica pone un altolà alla paladina dell’estate militante sul tema delle spese militari.
Geopolitica: deterrenza elemento chiave
C’è una regola essenziale nella geopolitica: quando una nazione diventa decisamente più potente di una sua possibile rivale, il pericolo della guerra aumenta. Per questo, serve che le principali realtà globali si mantengano sul terreno dell’equilibrio, bilanciando anche sul fronte militare uno con l’altro. È il meccanismo della cosiddetta “deterrenza”: si predispongono misure per dissuadere il nemico da mettere in atto azioni di attacco. Con questo strumento dissuasivo, l’umanità ha evitato l’olocausto nucleare nella seconda metà del Novecento, in un’epoca di corsa agli armamenti.
Come ebbe modo di scrivere lo storico Andrew Roberts, commentando i costi della guerra delle Falkland nel 1982 che superarono i 7 miliardi di dollari, “risulta lampante la seguente verità: spese per la difesa relativamente alte rappresentano comunque un buon investimento, in quanto lo scontro aperto è sempre assai più costoso della deterrenza”.
Le spese degli altri, e la decisione della NATO
Oggi sul piano globale esistono USA ed Europa, legati da un patto difensivo militare, a cui sul piano geopolitico si affiancano Russia, Cina, India e gli Stati arabi del Golfo. Secondo i dati dello Stockholm International Peace Reaserch Institute (SIPRI), nel 2022 la spesa militare globale è aumentata del 3,2%, con un aumento annuale più forte degli ultimi 30 anni, con un +13% rispetto al 2021. Stati Uniti, Cina e Russia insieme rappresentano il 56% di una spesa che da otto anni è in aumento. In Russia la spesa militare e’ cresciuta nel 2022 di oltre il 9%; Mosca oggi spende il 4,1% del PIL in difesa, contro il 3,7% del 2021. La Cina ha stanziato 292 miliardi di dollari nel 2022, il 4,2% rispetto al 2021 e -attenzione alla dinamica- il 63% in più rispetto al 2013. E per il 2023 ha aumentato del 7,2% la spesa militare giungendo ad avere in modo stabile il secondo budget militare più ingente del mondo (1.560 miliardi di yuan), secondo solo alla Difesa americana che ha un bilancio di 858 miliardi di dollari, che tradotto in termini pro capite ci dice che la spesa militare di Washington è di oltre 16 volte maggiore rispetto a quella di Pechino. Insomma: la spesa militare globale è in continuo aumento, come conseguenza di un mondo sempre più insicuro dentro il difficile equilibrio del secolo tra democrazie occidentali e autocrazie orientali.
In questa cornice si cala la decisione della NATO di portare al 2% del PIL le spese militari, decisione assunta nel 2014 all’indomani della prima crisi ucraina quando i membri dell’Alleanza iniziarono a fare i conti con le conseguenze di un’escalation militare poi purtroppo rivelatasi effettiva perchè Putin dopo la fuga da Kabul ritenne la NATO incapace di rispondere e l’Occidente ormai in decadenza. Rompere oggi questo equilibrio, consapevolmente o meno, significa creare le condizioni affinché l’ago della bilancia della deterrenza pesi a favore del piatto delle autocrazie (che non avendo il problema del rapporto con le opinioni pubbliche non si fanno scrupoli di armarsi sempre più).
Politica di difesa: non perdere credibilità
Uno Stato serio e autorevole non modifica in maniera capricciosa la propria politica di difesa, soprattutto quando fa parte di una alleanza internazionale, e leadership avvedute sono quelle che non assecondano i facili istinti demagogici per esigenze di cassetta elettorale contingente. E l’approccio “voglio una difesa europea per abbattere i costi” sostenuto da Schlein non solo cozza contro il principio di realtà (perché se gli USA – come vorrebbe fare Trump e come sognano tanti rossobruni di casa nostra- lasciassero il suolo europeo per rimpiazzare i vuoti bisognerebbe rapidamente mettere mano al portafoglio, e a quel punto altro che 2% cara Elly!), ma rischia messo così di farci fare la fine del PNRR. Ovvero diffidenza da parte di mezza Europa, che penserebbe che gli Italiani vogliono farsi la Difesa coi soldi degli altri. Circostanza che minerebbe alla radice le basi di fiducia e reciprocità che devono necessariamente stare alla base di qualunque progetto comune.
Gli investimenti di Germania e Francia. Il conto lo pagano gli altri
I tedeschi (che non hanno deciso di eliminare il 2%, ma di arrivarci gradualmente) hanno deciso di investire nei prossimi anni 100 miliardi per ammodernare il proprio strumento militare. La Francia ha annunciato che nei prossimi sette anni investirà 413 miliardi di euro nella difesa, raddoppiando il budget annuale dai 32 miliardi del 2017 a 69 del 2030. Tutti i nostri partner europei sanno che per costruire una Difesa europea in una prima fase bisogna investire di più, perché devi standardizzare e raggiungere capacità senza perdere quelle che hai. Facendo ricerca e investimenti comuni, a quel punto puoi ottimizzare la spesa, evitando doppioni e sprechi. Ma se ti presenti al tavolo europeo diminuendo i tuoi impegni, mentre gli altri le aumentano, fai la figura di quello che va al ristorante e ordina alla grande perchè tanto poi pagano gli altri. Siccome in questi casi il conto è più alto degli scrocconi in Albania, non c’è nessuno che a consuntivo ti paga il conto. Risultato: verremmo messi alla porta subito. Però vuoi mettere dopo, partecipare ad una bella manifestazione fuori dai cancelli della Oto Melara a La Spezia rimasta senza commesse, per dire che si sta dalla parte degli operai contro i padroni cattivi?
Politica estera: rischio marginalità
Il terzo campo dal quale emergono le conseguenze delle improvvide intemerate di Schlein nella sua versione vicentina, è certamente quello della politica estera. Quale credibilità potrebbe acquistare un’Italia che si chiamasse fuori in sede NATO da accordi presi, nel momento in cui in quella sede vi è una discussione sul futuro dell’Alleanza dopo la guerra in Ucraina? Non bisogna essere Kissinger per capire che un’Italia guidata da una politica estera all’insegna del rimangiarsi gli impegni sottoscritti in materia di spese militari conoscerebbe un orizzonte di isolamento, di diffidenza e di marginalità. Con il risultato che, quando la NATO si dovesse rendere necessaria per i nostri interessi diretti (pensiamo al Mediterraneo), qualcuno ci potrebbe richiamare ai nostri doveri, anche bruscamente.
Politica interna: la crisi si avvicina
The Last but not the least, il comizio vicentino di Elly Schlein sulla diminuzione delle spese militari ha un effetto sul piano della politica interna. E sancisce, una volta di più, da un lato la mutazione genetica del Pd che da partito delle istituzioni si trasforma in movimento alla ricerca di un consenso non su politiche organiche ma su slogan ad effetto e dall’altro la sua sovrapponibilita’ al Movimento 5 Stelle. La guerra in Ucraina, e l’atteggiamento da tenere in proposito, è stato il solco che ha diviso Pd e 5 stelle nella scorsa legislatura. Conte ha usato questa clava per divaricare le posizioni, e minare alla radice il governo Draghi che leggeva come esiziale per il suo populismo. Oggi Schlein accusa “il Pd dell’ultimo anno e mezzo” di aver tradito il pacifismo di sinistra. Potrei dire molte cose, visto che all’epoca c’ero, ma non è questo il punto. Il punto è che Elly Schlein decide scientemente, su un tema che a sinistra è delicato come quello della pace, di scaricare in un colpo tutte le politiche dei suoi predecessori per abbracciare in toto la posizione di Giuseppe Conte. Avvicinando sempre più la crasi tra Pd e 5 stelle, e scegliendo un tema fino a ieri divisivo sul quale da’ stanzialmente ragione alle posizioni (invero ciniche, sfuocate e contrarie agli interessi dell’Italia e dell’Occidente) di Giuseppe Conte. Il Pd di ieri era quello di Renzi presidente del consiglio e Roberta Pinotti ministro della difesa che siglava l’accordo NATO in Galles nel 2014 sul 2 per cento del PIL alle spese militari per aumentare la sicurezza europea; era quello di Paolo Gentiloni presidente del consiglio e sempre Pinotti alla Difesa che dava seguito alla riforma dell’apparato militare; che con il ministro Lorenzo Guerini approntava (nei governi Conte 2 e Draghi) il meccanismo graduale di adeguamento della spesa militare in adempimento agli accordi internazionali; che con il segretario Enrico Letta si alzava in Parlamento e -prima forza politica a farlo- chiedeva di sostenere la resistenza del popolo ucraino anche con l’invio di armi. Quello di oggi, il “nuovo Pd” dell’estate militante, pensa che sia più facile risolvere tutto cantando John Lennon in una ospitata televisiva o strimpellare una chitarra nel segno della “peace and love”, ovviamente sempre in favore di telecamera. Peccato che, là fuori, il mondo sia terribilmente più complicato. E che le politiche di difesa, sicurezza e alleanza richiedono statisti dotati di lungimiranza e forza d’animo necessarie per guidare i loro popoli verso la speranza, e non demagoghi improvvisati, anche se travestiti da menestrelli pop.
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