La recensione
Storie bastarde: pugni nello stomaco e addio lieto fine, come la vita vera. Il libro di Davide Desario

Il primo libro che ho letto – avrò avuto sei anni – è stato I ragazzi della via Pál. La storia di Nemecsek mi ha segnato profondamente: in particolare la scena di lui che, moribondo, trova la forza per andare a combattere l’ultima volta contro i nemici prepotenti, mi ha sempre straziato e, allo stesso tempo, dato un’idea di fedeltà assoluta a un obiettivo guidato da un principio morale assoluto.
Storie bastarde (Avagliano Editore, prefazione di Francesca Fagnani) mi ha rimandato a quel libro. Davide Desario, autore e protagonista, descrive le avventure del suo gruppetto di piccoli amici che provano a farsi strada nella vita crescendo in un quartiere difficile, come era la Ostia a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80. E lo fa senza fronzoli, come una macchina da presa diretta. Una sorta di C’era una volta in periferia, con l’amicizia a fare da filo conduttore e continui flashback e flashforward alla Sergio Leone. Alcune storie descritte sono bastarde davvero. Pugni nello stomaco. Spesso senza evoluzione né lieto fine per i coprotagonisti. Costretti a lottare a mani nude per evitare i mali dell’epoca e della zona: criminalità e droga su tutti, ma anche cornicioni che cadono o soldi che mancano. Altre sono empatiche e positive.
Lo leggerete – perché va letto – agilmente. Riderete e dopo poche pagine vi ritroverete a commuovervi. Penserete che il libro è una sceneggiatura perfetta per un film. O una serie, come va di moda oggi. L’autore ci porta con mano nel suo mondo e ci regala il suo vissuto profondo, le sue emozioni. Che ti trasmette anche se hai la fortuna di conoscerlo e di sentire dal vivo i suoi racconti, che spaziano dagli episodi fantastici di gavetta giornalistica – spesso condivisi con la fidanzata dell’epoca e oggi moglie Nadia – agli attuali pranzi con la mamma. Davide è orgoglioso delle sue radici e dei suoi amici. S
ei triste con lui quando leggi che qualcuno di loro, nel prosieguo della vita, non ce l’ha fatta, perché alla fine quell’ambiente l’ha contaminato e ha preso il sopravvento. Sei felice con lui quando apprendi che per altri le cose invece sono andate bene. Racconta – con una straordinaria capacità di adattare lo stile narrativo alla specificità della storia – un’adolescenza di periferia, abbandonata a se stessa, ma al contempo vogliosa di farcela. Che viveva con i tempi lenti e non nevrotici della tecnologia odierna, e in cui le scoperte ti venivano sbattute in faccia senza mediazioni. Quando arrivi al termine sei dispiaciuto di non poterti tuffare in altre storie, ma anche confortato che a quei ragazzi di Ostia non sia accaduto altro. Perché di storie bastarde ne hanno avute davvero tante.
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