Cosa c’è di più pericoloso del superbonus edilizio italiano, che ha fatto sobbalzare tutti gli osservatori internazionali ed è stato definito da Giorgia Meloni “la peggiore patrimoniale al contrario mai fatta”? Semplice: sancire la retroattività delle misure che ne contengono i danni. Ad una cattiva idea di politica economica si sovrappone un cattivissimo precedente giuridico: lo Stato può contraddire sé stesso e quindi negare ciò che ha messo nero su bianco. Il Pil cresce, ma il debito corre. Il vantaggio di bastonare il superbonus, nel breve periodo, è chiaro. Il ministro Giorgetti, alla Camera, lo spiega con i toni del buon padre di famiglia: “Bello il 110% che fa schizzare il prodotto interno lordo, ma poi a me mancano i soldi per la sanità, la scuola, la cultura, il sostegno alla natalità, ai redditi bassi, all’occupazione”.

Il baratro della non fiducia

Come dargli torto, se vuole spalmare le detrazioni da 4 a 10 anni? Ma basta girare l’angolo dell’ovvio, per capire che con la retroattività si compie un ulteriore passo nel baratro della non-fiducia di operatori economici e cittadini. Ogni iniziativa di finanza pubblica, dalle agevolazioni fiscali fino all’emissione di titoli di Stato e alle attese di erogazioni pensionistiche, può essere infettata dal morbo della provvisorietà. Prima del sospetto di incostituzionalità, c’è un effetto più immediato e tangibile: la legge non detta più legge neppure riguardo alle aspettative legittimamente acquisite da imprese, banche e singoli cittadini. E tutti sanno quanto sia proprio l’affidabilità il perno che orienta i comportamenti degli investitori.

Il diritto di intervenire

Il pacchetto-superbonus non riguarda solo la retroattività della spalmatura da 4 a 10 anni, ma comprende ad esempio anche la riduzione dal 50 al 30% del bonus per ogni ristrutturazione edilizia. Non è certo in discussione il sacrosanto diritto della politica di intervenire per sterilizzare gli effetti di un provvedimento che mette in ginocchio i conti pubblici. Un giro di vite che è iniziato con il portare dal 1° gennaio 2024 il superbonus dal 110 al 70%, e che ora prosegue con interventi restrittivi che interessano tutta l’area dell’edilizia. E il punto-chiave non è neppure ciò che anima oggi la cronaca politica, cioè il conflitto fra MEF e Forza Italia.

Il prezzo di un errore

In campo ci sono due diverse visioni dello Stato liberale, o meglio il dissidio fra le regole del mercato e un dirigismo che le infrange. Il prezzo di un catastrofico errore di previsione, compiuto nel 2020, pesa su tutti noi. Ma non dovrebbe esser fatto pagare alla credibilità dello Stato, e quindi di nuovo a tutti noi. In questo momento, peraltro, serve a poco anche ricordare la paternità molto diffusa della scelta compiuta durante la pandemia: Giuseppe Conte portò il superbonus a battesimo nel governo giallorosso, ma come testimoni entusiasti ebbe tutti gli altri, soprattutto quando Mario Draghi provò a limitarne i danni. A quel punto, sia i partiti di maggioranza (5S, Lega, FI, Forza Italia) sia FdI all’opposizione lo fermarono.

Eppure, già allora era evidente un vizio originario: come riassume Milena Gabanelli,siccome paga tutto lo Stato, salta lo stimolo a negoziare sul prezzo, i costi esplodono e il meccanismo si estende a tutta la filiera dei fornitori”. Questa è la ben poco edificante premessa. Ma oggi pesa l’auto-attribuzione, da parte del potere esecutivo, della facoltà impropria e abusante di smentire sé stesso, con una retroattività di misure negatorie di diritti acquisiti. Ha ragione l’economista Veronica De Romanis, che nel suo “Il pasto gratis. Dieci anni di spesa pubblica senza costi (apparenti)”, spiega che “promettere la luna” è facile, ma poi “quando le illusioni svaniscono, quando gli espedienti contabili non bastano più, il rischio è che il prezzo più alto lo paghi la democrazia”.

Sergio Talamo

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