Caro Monsignore, “Elì, Elì, lemà sabachtani?” Gesù prima di morire disse queste parole e i soldati pensavano si rivolgesse ad Elia, invece chiamava Dio e gli chiedeva perché lo avesse abbandonato. Che vuol dire? Aveva perso la fede anche lui? Dio aveva perso la fede in Dio? Il figlio non credeva più al padre? Il male vince sulla speranza? Mi ha sempre molto colpito questa frase, splendida, sconvolgente, che fa apparire Gesù molto più dolce di come appaia nel resto del Vangelo, che ci permette di identificarci in lui e che ci fa intuire che la debolezza è più forte della forza. È la forza vera. Forse ci dice anche che la fede è inutile, è un rito? Ho sempre pensato così.
Piero Sansonetti

Caro Direttore, grazie anche questa volta per le tue domande. Inizi riportando il grido di Gesù sulla croce pronunciato in lingua aramaica, come a sottolineare che sono le ipsissima verba Christi. Un grido che fin dall’inizio – fin dallo stesso evangelista – ha interrogato e inquietato le coscienze cristiane. In realtà sono le parole con cui inizia il salmo 22, una lunga preghiera di un uomo sofferente che si sente abbandonato da Dio, anche se lui non si allontana da Dio. Tanto da gridare verso di Lui rimproverandolo per l’abbandono. Quel grido è una vera e propria preghiera. Molte delle preghiere – come riportate nella Bibbia – hanno i tratti di un «confronto» serio e robusto tra il credente e Dio stesso. Credo che vada riscoperta questa dimensione della preghiera, che «lotta» con il sentimento doloroso dell’abbandono di Dio, proprio perché non vuole abbandonarlo. È ovvio che siamo lontani dalla preghiera «recitata» secondo il cliché di una «devozione» passiva e di maniera (una volta si chiamavano pratiche di pietà, ed erano formule devote, prefissate e sempre uguali, da ripetere indipendentemente dai passaggi più o meno drammatici della vita e della nostra storia con Dio). La Bibbia, nel suo complesso, è molto lontana dal cliché delle preghiere prive di passionalità, di dialettica, di immediatezza del rapporto con Dio. Gesù si è anche scagliato contro una falsa verbosità nella preghiera, che più che appassionata diventa petulante; e più che incalzante diventa lagnosa.

Nella tua domanda mi piace leggere l’urgenza che credenti e non credenti si confrontino con pagine come queste: aiutano ad uscire dalla banalità e a crescere nella sapienza che trasmettono. Non è questa la sede anche solo per accennare alla storia della teologia e della spiritualità cristiana che si è dovuta confrontare con questo drammatico grido di Gesù crocifisso. Nel primo millennio queste parole hanno suscitato un vivacissimo dibattito teologico: poteva il Figlio di Dio pronunciare quel grido? O forse era solo l’uomo- Gesù? Nel secondo millennio la teologia e la spiritualità cristiana hanno letto in questo grido di Gesù l’urlo di tutti i «condannati» della terra, dei sofferenti, dei dimenticati, dei violentati. L’interpretazione era questa, appunto: il Crocifisso, in quel grido, faceva suo appunto l’urlo di tutti i «crocifissi», portandolo dentro l’intimità di Dio stesso, accogliendolo come un grido del Figlio stesso, che chiede una risposta a nome di tutti i crocifissi della terra. Potremmo dire che, da quel Venerdì Santo, Dio ha scelto di non sottrarsi al grido delle vittime dell’abbandono degli uomini, che sperimentano l’angoscia di essere abbandonate anche da Dio. Potremmo dire che Dio non vuole «stare in pace» fino a che il male non sia sconfitto e i «crocifissi» della terra liberati. Teologi più vicini a noi – lacerati dalla shoà e da altri genocidi – si chiedono se in quella scena non appaia un Dio che ha deciso di rinchiudersi nel massimo della debolezza, per provocare l’uomo a venirgli in soccorso: questo chiede Dio ad ogni uomo che si faccia prossimo del Dio «nascosto» in ogni crocifisso («L’avete fatto a me»).

La versione più acuminata, tenera e struggente di questa interpretazione è quella data da Etty Hillesum, ebrea vittima della shoah, che interpreta il dramma abissale del sentimento dell’abbandono di Dio in cui la tragedia si sta dispiegando, come il segno di un estremo appello: «Ora tocca a noi aiutare Dio, con i nostri simili». Questa esperienza – si domanda qualcuno – non è forse la forma del nostro rapporto con il Dio cristiano? E l’insegnamento da trarre non è forse questo: «è ormai ora che si faccia noi qualcosa per Dio?». Forse, soltanto i mistici possono capire fino in fondo questo paradosso. Di certo, aggiungerei io, sarebbe già molto se diventassimo come il ladro del racconto evangelico, che proclama la sua compassione per l’innocente perseguitato. Nel mondo sta crescendo il fastidio per i crocifissi della storia: ed evapora la vergogna che dovremmo avere, per il solo fatto che li lasciamo sulla croce senza neppure una parola di giustizia. In ognuno di essi c’è il Dio absconditus, penso ai morti senza nessuno accanto e agli immigrati inghiottiti dal mare. E ogni appuntamento perso con il grido del Figlio, che risuona nel loro grido, ci farà sprofondare in un isolamento mortale: finiremo per morderci anche fra di noi, esaurendo le riserve di compassione che il cristianesimo ci ha pure lasciato in eredità.

Quel grido tuttavia è legato alla risurrezione di Gesù. Nella fede biblica il confronto con Dio – anche quando è drammatico – va insieme alla consapevolezza che Dio non abbandona e il male viene vinto. Certo, il male – lo sappiamo bene – non è stato cancellato. Ma la speranza della vittoria è parte della fede biblica. Lo stesso salmo 22 – Gesù lo conosceva bene – si apre con il grido di abbandono ma la preghiera via via si trasforma in fiducia sino a divenire impegno di benedizione: «Annunzierò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea» (v. 23).
È la prospettiva che emerge dall’intero racconto della passione di Gesù. Vorrei ricordare brevemente le altre frasi pronunciate sulla Croce: sono sette, composte di 41 parole. Eccole: 1. Ai crocifissori: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Lc. 23,24). 2. Alla madre Maria: «Donna, ecco tuo figlio». Al discepolo amato Giovanni: «Ecco tua madre» (Gv. 19, 26-27). 3. Al malfattore pentito, crocifisso accanto a lui: «In verità ti dico: oggi sarai con me in paradiso» (Lc. 23,43). 4. «Elì, Elì, lemà sabachtani?» (Mt. 27,46; Mc. 15,34; cfr. Sal. 22,2). 5. «Ho sete!» (Gv. 19,28). 6. «Tutto è compiuto!» (Gv. 19,30). 7.

«Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc. 23,46; cfr. Sal. 31,6). È come un testamento di Gesù, una testimonianza sulla sofferenza e sul suo significato. Lette insieme ci inviano un messaggio straordinario. Il primo è un messaggio di perdono per i i suoi torturatori. Sono passati duemila anni! Quanto cambierebbe il mondo se anche solo una sillaba scendesse nei cuori. Segue l’affidamento della madre al discepolo e, viceversa, del discepolo alla madre e lì puoi vedere tutti noi alla base della croce, con i nostri affetti più intimi. Dall’abbandono sgorga il dono degli affetti. E, inaudito a sentirsi, Gesù promette il paradiso al ladrone che si commuove davanti alla innocenza di Gesù. E il grido della “sete” va ben oltre il pur comprensibile bisogno fisico. E il grido «perché mi hai abbandonato» si lega all’affermazione finale: «tutto è compiuto».  Dici bene: ci identifichiamo in Gesù. È esattamente così: la parabola della vita terrena racconta di un uomo concreto in carne e ossa che parlava di Dio e della speranza che non muore, a una popolazione composta di uomini e donne bisognose di ascoltare una voce diversa dalla voce del potere o della legge del più forte o dalla voce della ricchezza. Ho scritto proprio sul tuo giornale il 12 marzo, a proposito delle carceri che «la pena non deve uccidere la speranza» (come assai bene hai riassunto il mio pensiero in questo efficace titolo).
Per noi credenti è Gesù il fondamento della speranza, proprio a motivo di quel “grido” del Crocifisso.

Il Risorto ne scioglie il paradosso: in Dio, fatto uomo, c’è un «oltre» l’abbandono, una destinazione per tutti gli abbandonati. Il «male» – per tornare ad una parte delle tue domande – anche quando vince per ora, non vince per sempre. La fede è inutile? È solo «un rito?», scrivi. Caro direttore, la fede non è mai inutile. I riti sì, sono inutili quando vengono svuotati del loro significato. Il Dio dell’Antico Testamento lo dice di continuo: non voglio sacrifici ma voglio che seguiate i miei insegnamenti. I Profeti di Israele lo ripetono al popolo e ai loro re. Gesù lo dice ai farisei, agli scribi, a tutti coloro che hanno ingabbiato la fede nelle pratiche di pietà di un preghiera senza passione e di un rito senza vita. L’essenziale è l’amore come lo ha vissuto Gesù. È «questo» amore che cambia il mondo. Fino a che ci saranno preghiere di passione e riti di resistenza il male non avrà l’ultima parola nemmeno qui, sulla terra. Quando la preghiera del cuore prende sul serio il dramma del Figlio abbandonato, e il rito della fede ci incalza con la memoria acuminata del Crocifisso, la fede mostra la via di una compassione di Dio che, altrimenti, la nostra storia perderebbe totalmente. L’abbiamo visto, del resto – e lo vediamo – che è così. Credenti e non credenti possono imparare molto, da quel grido. E ricavarne qualcosa di più, per la speranza degli abbandonati, in un’epoca stordita come la nostra, che, a quanto sembra, si applica con metodo per immunizzarci dalla compassione.