Il dialogo
Come essere cristiani senza Dio? Non con la fede ma con l’amore
Caro Monsignore, ho letto, naturalmente, i tuoi articoli pubblicati sul Riformista. Soprattutto gli ultimi. Quello sui migranti e quello sulla misericordia, per esempio. Sono rimasto colpito, per molte ragioni. La prima è questa: io sono un vecchio comunista, lo sono stato fino alla fine del comunismo. Poi ho scelto di concentrare le mie forze nelle battaglie per i diritti e per la libertà. Non so più come definirmi, oggi. Non ho più una parrocchia, una casa politica. Riformista – cioè il nome del mio giornale – è l’unica parola che mi sembra ragionevole in politica. Beh, leggendo quello che tu scrivi ho ritrovato i valori essenziali nei quali non ho mai smesso di credere. L’uguaglianza, la libertà, il diritto ai diritti, il perdono, la fraternità, l’umanitarismo. Non li ritrovo quasi mai questi valori – tutti insieme – in nessun partito, in nessun giornale, in nessun circolo intellettuale. Eppure tra te e me c’è una differenza abissale. Tu sei un ministro della Chiesa. Tu credi in Dio, nell’anima, nell’eternità, nella legge divina. Io no. Sono fortissimamente ateo. Materialista. Non credo nelle leggi. Vedo nell’idea di Dio il pericolo di una possibile autorità oppressiva. Come possiamo ritrovarci – tu ed io – in dei valori assoluti? E poi: i valori e i principi sono la stessa cosa? Sono la stessa cosa, alla fine, la morale e l’etica? E la negazione di una fede religiosa non costituisce una barriera definitiva tra un credente e un ateo? Insomma, si può essere cristiani senza Dio? Mi dici, Monsignore, se hai una risposta a queste domande?
Piero Sansonetti
Caro Direttore, grazie della tua lettera che pone non una ma molte domande e forse richiede non una ma molte risposte. E forse vale la pena – in questo tempo di pandemia – mentre siamo costretti a tenere la mascherina sulla bocca, scambiarci un dialogo su questioni davvero serie. È una opportunità preziosa. Anche perché è quanto mai opportuno evitare che la mascherina la mettiamo sugli occhi, magari per chiacchierare a vanvera o, peggio, per scambiarci per lo più solo accuse vicendevoli. Per non perdere tempo, partirei dall’ultima domanda: “Si può essere cristiani senza credere in Dio?” In prima battuta è ovvio che non è possibile. Gesù stesso “crede” nel Padre che sta nei cieli. Se togliamo dai Vangeli il riferimento a “Dio-Padre”, cade l’intero Vangelo. Come sappiamo i discepoli di Gesù furono chiamati “cristiani” ad Antiochia nei primi anni dopo la morte di Gesù. I “cristiani” perciò sono quelli che accolgono Gesù e il suo mistero di Figlio del Padre. In questa prospettiva dovremmo già discutere su cosa significa il termine “Dio”. Potremmo parlarne un’altra volta.
Ma mi preme dire immediatamente che tanto spesso il Dio che molti non credenti rifiutano, lo rifiuto anch’io e anche la stessa Chiesa. Ad esempio quando scrivi del Dio che diventa una autorità oppressiva, ebbene devo dire che io stesso non credo in quel Dio lì! Lo dice Gesù stesso più volte nei Vangeli. Ti presenti come il «vecchio comunista» che mi legge con attenzione (e ti ringrazio per questa stima). E aggiungi che sei “fortissimamente ateo…”. Sono molti anni che cerco di intessere dialoghi e incontri tra credenti e non credenti: sin dagli inizi degli anni Novanta. E conosco le inquietudini che agitano tanta cultura del nostro tempo. Mi colpirono le riflessioni di un noto teologo del Novecento, il gesuita Henry De Lubac, la cui tesi si riassumeva nel titolo: “Il dramma dell’umanesimo ateo”. L’uomo contemporaneo ha pensato fosse necessaria la morte di Dio per affermare la sua libertà. La conclusione? Oggi parliamo anche della morte dell’uomo.
Luigi Zoja, con acuta analisi, ha pubblicato un bel volumetto: La morte del prossimo. Scrive: «La morte di Dio ha svuotato il cielo… il posto di Dio è preso dall’uomo e dalle sue opere». Nella pagina di copertina scrive: «Ama Dio e ama il prossimo, diceva il comandamento. Ma già per Nietzsche Dio era morto. Nel mondo pre-tecnologico la vicinanza era fondamentale. Ora domina la lontananza, il rapporto mediato e mediatico. Il comandamento si svuota. Perché non abbiamo nessuno da amare». Caro Direttore, vorrei iniziare proprio di qui una prima riflessione. Zoja ha colto nel segno: “Non abbiamo più nessuno da amare”. È un’affermazione che mi porta a focalizzare meglio le riflessioni e ad accogliere la tua domanda se un ateo può essere cristiano.
Credo che dobbiamo andare oltre il pur serio dibattito attorno al polo alternativo di fede e ragione: dispositivo che ha finito per far valere una politica di reciproca esclusione tra credenti e raziocinanti come se fossero mutazioni antropologiche incompatibili tra loro. Se rimaniamo in questo orizzonte rischiamo il corto circuito. Insomma, il credente – dice il non credente – rinuncia alla ragione per amore della sua fede; e gli atei – dicevano i credenti – stanno lontano dalla fede, per amore della ragione. E così nessuno incontra l’altro, per di più avallando l’idea di un fossato incolmabile. Bene, è venuto il tempo di dire chiaramente, con tutto il rispetto per le buone intenzioni, che se così fosse, sarebbero entrambi amori “sbagliati”.
E alla lunga, dannosi. In ogni singolo essere umano c’è in realtà uno spazio attorno a cui “pensare” e “affidarsi” si devono incontrare: per l’onestà intellettuale di una coscienza che riconosce nella testimonianza del mistero che ci parla, spoglia della presunzione di possederlo, lo stesso struggimento del senso della vita di cui il pensiero è amante, senza poter esserne padrone. Quando la ragione riconosce la presenza del mistero non si indebolisce. Al contrario, è forte. Ha intravisto la luce e ne è rimasta abbagliata. Le vie della ragione, perciò, vanno percorse tutte e fino in fondo. E la fede non è cieca e non può pretendere il possesso esclusivo e pieno del mistero. Non mi dilungo: il credente e il non credente si trovano assieme – proprio uno nell’altro, nel profondo dell’interiorità di ciascuno – sulla soglia del mistero.
Ma è a questo punto che mi pare si debba registrare in maniera nuova il dialogo. Più che tra ragione e fede, tra ragione e amore, appunto. Ed è sulla via dell’amore che è possibile non solo l’incontro ma anche l’alleanza per trasformare il mondo. L’indicazione viene chiara dal Vangelo della Misericordia che in questo tempo stiamo comprendendo ancor più profondamente. Nella tradizione cristiana l’amore (agàpe) è il cuore del mistero. È Dio stesso che si comunica in maniera storica, effettiva, trasformante. Nell’inno all’amore di Paolo – quello della prima lettera ai Corinzi – l’amore è superiore a tutte le virtù. Non c’è null’altro al di sopra. Né la profezia della tradizione ebraico-cristiana; né l’ineffabile lingua degli angeli, quella che estasiava i Corinzi; e nemmeno la speranza; e neppure la conoscenza, la quale in questo mondo è così misera sì che conosciamo Dio solo confusamente, come attraverso uno specchio, dentro «enigmi».
L’amore è superiore persino alla fede. Nel Vangelo di Matteo, Cristo ha detto: «Se avrete fede quanto un granellino di senape potrete dire a questo monte spostati da qui a lì, ed esso si sposterà. Niente vi sarà impossibile». E san Paolo con un incredibile capovolgimento: «Se avessi tutta la fede tanto da poter trasportare i monti, ma non avessi l’amore, non sarei nulla». Tutto passerà, anche la fede e la speranza. Al termine resterà solo l’amore. È dottrina cristiana, ma il suo riverbero tocca ogni religione. Manifestazione peculiare dell’amore è quella che spinge a piegarsi verso i deboli, i malati, gli esclusi, gli indigenti, i poveri. Questa «via» è davvero «santa» nel senso più ampio del termine. Essa comporta un’energia interiore che sfocia sempre nell’Altro. Mai permette di chiudersi in se stessi, perché è sempre «oltre». È la vera energia di libertà. Costringe, se la si pratica, ad andare oltre se stessi e il proprio gruppo, persino oltre la stessa appartenenza religiosa, fosse anche cristiana.
Ciò è evidente dalla pagina evangelica di Matteo 25, che il cardinale Martini amava chiamare il «Vangelo dei non credenti» (spesso Gesù porta a esempio persone estranee alla religiosità ebraica, talora anche nemiche). L’evangelista scrive esplicitamente che colui che offre il bicchiere d’acqua è un non credente; eppure proprio lui, mentre professa davanti a Dio di non essere credente, si sentirà ripetere: «Quello che hai fatto ad uno di questi miei fratelli più piccoli l’hai fatto a me». In questa “via amoris” tutti possiamo ritrovarci, credenti in Dio e credenti solo religiosi, credenti laici e non credenti affatto. Ovviamente, non ci si ritrova per caso, ma per scelta; ed è una scelta talora impegnativa, mai comunque banale. L’istinto (come fidarsi di esso?) è tirare diritti per la propria via, quella dell’individualismo: e oggi sono numerosissimi i “preti e leviti” che vedono e passano oltre; pochi, troppo pochi, i samaritani che vedono, si commuovono e si fermano. L’amore (anche e soprattutto quello per i poveri) è una scelta che porta a guardare il cielo che sta sopra e non le mura che stanno sotto.
Per questo, l’agape che impariamo da Dio può abitare ogni amore: e persino i suoi limiti di potenza e i suoi debiti di giustizia: perché la tenuta della fede, qui, significa che non siamo disposti a mollare il nostro attaccamento all’amore ferito dell’altro, e alla giustizia della sua redenzione, neppure di fronte alla morte. E neppure dopo. Questo amore, nella visione cristiana, non è un arredo mistico del sentimento. E la fede che si impegna per la sua verità non coltiva nessuna presunzione o disprezzo nei confronti della ragione della vita degna dell’uomo, indomabile e al tempo stesso vulnerabile, nella quale abitiamo insieme. Per i credenti ha un nome, Gesù di Nazareth; per chi non crede forse è senza nome, ma sempre cielo è.
L’amore è il presente assoluto, e l’assoluto futuro. Alla fine della storia, quando tutto avrà termine, non ci sarà più nessuna virtù umana, nessuna divisione. Solo l’amore. Solo la misericordia. Gli uomini e le donne non si dividono tra chi crede tanto, poco, pochino, molto, quasi per niente. No! Si dividono, semmai, tra chi si ferma (il Samaritano del Vangelo) e chi va oltre (tutti gli altri, il prete dell’epoca compreso!); tra chi ha uno sguardo di misericordia e si preoccupa della sofferenza dell’altro e chi tira dritto. Ma chi tira dritto oggi, domani potrà comprendere di avere sbagliato. Ce lo ricorda papa Francesco con la sua insistenza sul dialogo, sull’incontro, che scandalizza i tanti secondo i quali la Chiesa oggi dovrebbe continuare a fare proseliti e lanciare anatemi. Non è così dal Concilio Vaticano II: la strada è un dialogo che non abbandona la ragione ma trasforma il mondo secondo la forza dell’amore.
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